mercoledì 19 settembre 2012

La madre dei sogni

Funamboli che indugiano sui fili dei tram
inghiottiti dalla nebbia poco prima dell'aurora,
restituiti dalla notte pazza e muliebre
puntellata di stelle e da facili incontri.
Speranze stipate in fondi di bottiglia,
incroci di sguardi senza attenzione.
Il danzatore folle che si muove nell'oscurità,
che vomita parole ubriache ai passanti senza nome.
Ignorato, vacilla nel buio, tentenna malfermo
tra le sue convinzioni alcoliche
avvinazzate dal buon senso.
Gira l'angolo, e sparisce al sorgere del sole.

- Amedeo 'Vincent' Di Luna -

Mr.Black


Mr.Black è un tipo serio
un uomo di mezza età.
Vive al primo piano 
di una casa in periferia
tra le luci bianche dei lampioni 
e un'umanità buia e strisciante.
E' un tipo allampanato,
porta occhiali tondi e scuri
ha un viso aguzzo, la pelle grigia
e indossa sempre lo stesso impermeabile.

Mr.Black si nasconde tra la folla
non crede nell'aldilà,
mangia cibi surgelati
e beve Jack Daniels, gin tonic e rum.
Sorride poco e parla ancora meno
vive con un gatto nero che non si vede mai
non ha la televisione
e quando si sente solo
si ferma alla finestra
a guardare il mondo che scorre sotto di lui
e a pensare a una donna che non lo ha amato mai.

- Amedeo 'Vincent' Di Luna -

giovedì 21 giugno 2012

La Chimera


Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

21 settembre


Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull'ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt'intorno rinchiuse dalla foresta cupa. Incantevolmente cristiana fu l'ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. "In un'ora arriverete alla Verna, se Dio vole". Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un po' tristi, attonita sotto l'ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale.
Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torre naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui.
Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d'amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell'ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.

Dino Campana

venerdì 8 giugno 2012

La sintassi della paranoia

"A questo punto, si potrebbe pensare che una proposizione formata di tre parole, quali "Io lo amo", possa essere contraddetta in tre modi diversi. Le idee deliranti di gelosia contraddicono il soggetto, quelle di persecuzione contraddicono il verbo e l'erotomania contraddice l'oggetto. Ma in realtà è possibile un quarto genere di contraddizione, quello cioè che respinge tutto il complesso della proposizione: "Io non amo affatto, non amo nessuno". Siccome però, la libido deve pur rivolgersi a qualche cosa, questa affermazione sembra essere l'equivalente psicologico della preposizione: "Amo solo me stesso". Questo genere di contraddizione darebbe luogo alla megalomania, considerabile come un'ipervalutazione sessuale dell'Io che può in tal modo estromettere quell'ipervalutazione dell'oggetto d'amore che già ci è nota. [...] Coloro che non si sono completamente svincolati dallo stadio del narcisismo, vale a dire hanno su questo punta una fissazione, che può diventare una predisposizione per una successiva malattia, sono esposti al pericolo che un empito di libido particolarmente intenso, non riuscendo a trovare altro sfogo, conduca alla sessualizzazione delle pulsioni sociali, con la conseguente perdita della sublimazione, realizzata nel corso dell'evoluzione. Le nostre analisi ci rivelano che i paranoidi lottano per difendersi da tale sessualizzazione delle loro cariche psichiche istintuali sociali, per cui siamo indotti a supporre che il punto di minore resistenza del loro sviluppo debba trovarsi negli stadi dell'autoerotismo, del narcisismo e dell'omosessualità, stadi nei quali si dovrà trovare anche la predisposizione alla malattia, predisposizione che, forse, potrebbe essere definita con maggiore esattezza. Analoga disposizione dovrebbe essere riconsociuta anche nei pazienti affetti da dementia precox  o schizofrenia." [Il caso di Schreber. Osserazioni psicoanalitiche sul resoconto autobiografico di un caso di paranoia, Freud, 1911]


martedì 5 giugno 2012

Pensieri sparsi V


Pensieri sparsi,
un nastro adesivo
matite colorate…

Oggi, un violinista in metrò!

Il tempo è cosa strana:
le stagioni si dileguano
e le giornate s’allungano.

È il nulla, l’infinito,
un libro di saperi;
l’empia solitudine,
una farfalla nella notte.

Son occhi nel deserto
quelli che lo sguardo
spingono sino al miraggio;

un’angoscia divina,
un nastro d’argento,
la dama accusata
per un vessillo regale
sul seno.

Ma dite al pettirosso
quello con la cravatta
color vermiglio,
quello con l’emblema boReale
che gli incornicia il collo,
-di non temere-,
poiché la speranza
è una livrea  del tempo.

Francis

mercoledì 30 maggio 2012

Stilla di libertà


La pelle 
assapora una stilla di libertà.

Il Sottile bisbiglio
della negromante,
è un focolare che divampa;

è polvere di cristallo,
fuochi vermigli;
è zolfo d’orato,
un fiume di coltelli.

Ma di Massa purpurea,
trabocca la ferita,
è un popolo di demoni
una stirpe, onestamente tagliata,
su quella sozza libertà.

Francis

martedì 29 maggio 2012

Un sepalo di rugiada


Odo il vento arrivare.
Una banderuola di cristallo,
le note d’uno xilofono.

Accenti sottili
dolcezza di fondo.
È un velo di seta
Ch’acquieta il colpo.

Da una parte gli Alisei,
dall’altra, il Mistral

Son botteghe di parole,
che timido e ignorante,
mi meravigliano.

È l’audacia dell’esistenza:
-un sepalo di rugiada-,

la perla del cuore,
che trova  famiglia,
nel bazar della vita.

Francis

Desiderio antico


Il Nonnulla
è un cappello che si leva.
L’incontro con un Signore:
-memorie e poesie-.

O mani, che la dimora esista,
nonostante i litorali si sgretolino
e le gerarchie si dileguino,
è un desiderio antico.

Il frullare d’un colibrì
è qualcosa che ignoro;
La Morte, tuttavia, s’aggira
lapidaria.

È un pensiero politico,
un animale demoniaco;
È una stagione che s’appella,
col’avocato del Maligno,
a un articolo vergognoso.

Francis

Origami di carta


Un pacchetto di sigarette.
Una barchetta di carta.

Quest’oggi il vento è forte.
Una raffica, poi un’altra…

Sono due oceani
l’universo:
il cielo e il mare,
il litorale e il firmamento.

Sua Regalità non ha limiti:
da un vuoto all’altro
procede indifferente.

Una barca dispersa
è giunta sugli scogli.
Sul lido celeste,
l’intera fregata .

-Solitaria Gioia,
labbra di granito,
alla dogana del cielo,
origami di carta-.

Francis

Pensieri sparsi IV


Pensieri sparsi,
una cassetta delle poste,
un albero...

Ecco il postino.
-c'è un buon profumo nell'aria,
sta per nevicare!-

Un piede sul pedale
e la corona della catena, gira.

Cigola il violino stonato,
geme spossato
sul filo d’uno sbuffo.

È prodigiosa la costanza del ragno:
una gala di vapore ,
mani invisibili
e l’opera si compone danzando.

È la geometria dell’infinito
una perla d’ingegneria,
un balletto solitario.

La fatica è uno sforzo
che s’intesse col’anima,

è un arazzo del tempo:
una sillaba espirata,

-una Collana di diamanti-.

Francis 

lunedì 28 maggio 2012

Pensieri sparsi III


Pensieri sparsi,
un tavolino all’ingresso,
una siepe,
profumo d’estate.

Una farfalla attraversa la strada.

Il silenzio è cosa rara…
il cielo è blu.
Sciami di foglie, nell’aria,
sono spruzzi nel cielo.

Il colore è sottovalutato.
Sono ondate di tempesta,
lacrime, perché no?

L’anziana trattiene il respiro.
D’argento sono i suoi capelli,
uno scialle rosso
le incornicia le spalle;

la solitudine, una volta
allegra e mesta, si ricurva.
Il vuoto empio come la notte,
spinge il suo sguardo

alla mia portata.
Lo stupore m’assale:
È Poeta la vegliarda!


L’eremo dell’anziana,
è un dispaccio invisibile,
come lo Sfavillo du papillon  
che sovrana -si posa-.

Francis

Pensieri sparsi II


Pensieri sparsi,
origami di notte.
Carte da imballaggio,
scatoloni,
il treno quest’oggi è in ritardo.

In un angolo,
un pomeriggio d’inverno.

Una piaga scarlatta,
una cicatrice nel cielo.
Cumuli di foto;
intorno a noi cade la neve.

È impossibile, mi dico.

È di marchio regale, il Tempo.
L’Assurdo suggella l’aria,
e nello stesso momento,
il carro si fa pesante.

Imperiale afflizione
Di occhi tropo vicini,
È un gioco d’origami,

un sorriso di granito:
la fistola della parola
-che incede sul binario-
in nome di Nicodemo.

Francis

sabato 26 maggio 2012

Pensieri sparsi


Pensieri sparsi,
brevi sospiri fatti di questa misura.
Cartoline da lettere
in sosta indefinita
mentre il tempo, furtivo,
procede nel suo  ciclo.

Ti ringrazio sonno,
una cravatta rossa
per una briciola di pane.
Un sorriso di granito,
come un gioiello,
per un ricordo d’ametista;

son curioso,
guardando tuo il viso,
se c’è disprezzo o estasi,
in un cimelio di pietra.

Futili venti di questa portata,
una bussola, una carta;
ma Pensiero, ahi me, è impossibile
suggellarti  in questo mare.

 Francis

venerdì 25 maggio 2012

L’enigma della farfalla


Ho perduto un filo, un filo di spago.
A guardarlo,
era un’esalazione color miele.

Ho perduto un sospiro, un sospiro Reale,
d’ambra la sua estasi
trepidante di cimeli,
che in viaggio anela di splendore.

L’enigma della farfalla
Che agli occhi dei più,
scuote e urta,
in un battito, indugia  
i Gioiosi a cercare,
disarticolando lo sfavillo.

Ma iperboli e curve,
alla Schiera Solenne,
costringe parabole e svolte,
sullo spago dello sgarro,
fintanto non urta il firmamento
col taglio e con l'inganno.  

Francis

Iena di pietà


Son  supremo, disanima e sangue.

Son Boia, dalla lingua affilata.
L’altro, la madre dolorosa;
La schisi: la parodia .

Son Sommo, farsa d’uno spasimo,
con popolani contrabbando e risparmio.
Son commerciante di mondi ,
farmaco, usciere di fedeltà,
a grossolani, certo, chiedo lealtà.

Oh disanima naturale, nei boschi,
un groviglio di sguardi.
Occhi infranti, specchi e rilessi,
son urne di spiriti circonflessi.

Di Sangue, in verità
C’è n'è un vagone, un treno veloce;
il macchinista, il boia,
con la parodia -viaggia feroce-.

Quella canaglia, -mi spiace-,
la Somma di moralità,
che il tempo lo condanni,
-perché atroce-,
perché iena di pietà.

Francis

giovedì 24 maggio 2012

Je dis Chance

Je dis Chance, ô ma martelée;
Chacun de nous peut recevoir
la part de mystère de l'autre
sans en répandre le secret;
Et la douleur qui vient d'ailleurs
trouve enfin sa séparation
dans la chair de notre unité,
Trouve enfin sa route solaire
-au centre de notre nuée-
qu'elle déchire et recommence.

Désolé si ça vous trècasse!

Francis

lunedì 21 maggio 2012

Una sillaba


Se potesse un Labbro mortale intuire
il Carico originario
di una Sillaba pronunciata
Si -sgretolerebbe- sotto quel peso.

Se potesse un’anima immortale notare
Un corpo buttato sul fimamento
si sgretolerebbe
infrangendosi 

Francis

domenica 20 maggio 2012

Quel pellegrino


Porto un curioso liquore
alle mie labbra inaridite.
Porto un discreto vino
che nessuno conosce.

Potrebbe essere un Regale  
agli occhi dei più.

Non l’avessi accolto tra le mie mani,
nessuno avrebbe saputo 
di quel pellegrino  
che mi incornicia la bocca. 

Francis

giovedì 3 maggio 2012

Io sono il tempo, io sono l’Altro

Ecco l’uomo e la donna, definiti e scolpiti, intagliati nella carne e geometrizzati sulla gola: l'algebra del peccato!

Il malinteso è la via del giardino del tempo. Ineliminabile il malinteso. Impossibile a togliere. Se, altrimenti, si togliesse, la lingua diverrebbe lingua conforme. Lingua sociale. Società linguistica. Un società tagliata sulla parola. Tagliata sull’altro che deve rientrare nei cardini di una trattativa. Nei cardini di una nazione che dialoga con finalità d’intesa. Da qui due nazioni, due luoghi geometrici. Due luoghi topologici dove, il diritto è trattato sull’altro.

L’unilingua, questo è chiaro nell’idea comune. L’educazione al ben parlato. Alla bella parola che, si formalizza e si politicizza. Allora, la parola politica, come il voto politico, è l’animale fantastico dell’occidente. Del discorso occidentale: un marchio ch’è già dato dalla logica del gene; dalla clonazione, o per dirlo con il Genesi, da I saperi di Giuda: io so , che tu sai, che io so, perché, Io come l’Altro, secondo le agenzie delle competenze.

Il discorso schizofrenico privilegia la lingua fina, giungendo all’eloquio in punta di forchetta scrive Armando Verdiglione. E la materia della politica del fantasma schizofrenico, s’intende di palati fini.  L’algebra, quindi, esige il mangiare fine e mangiare grosso, essere gourmet o gourmaund, insomma, il conto è una abbuffata di sassi o, ben che vada, di sabbia: questione di erotismo, non già di sessualità.

Il fantasma schizofrenico abbocca al linguaggio naturale, quello tagliato su misura nell’algebra della pasticca, quello che può amministrare e gestire meglio, perché la Cosa funzioni: naturalmente s’intende la funzione come soluzione finale.

Il Divino è senza Dio, l’umano è senza l’uomo, questo il sistema ben amministrato e compartimentato del dogma gnostico. C’è un dio inferiore e uno superiore, e nel mezzo, per estensione, il purgatorio. La terza classe, il terzo ceto, il ceto medio, il cittadino che partecipa al giudizio, aggregandosi, accodandosi, appecorandosi. La massa trova, nella festa, il banchetto cannibalico, e l’altro, è invitato sempre dopo che Abramo ha massacrato Isacco.

Ecco la dietetica entro cui, lo stesso Jacques Lacan, rimane apparecchiato sulla tavola della sua topologia: cercare la soluzione all’albero della conoscenza del bene e del male, la conoscenza topologica, quel ramo del sapere universale, attraverso la conoscenza stessa, appetisce, sia l’algebra che la geometria, portando entrambe, piuttosto che alla comunicazione, piuttosto che all’alingua, a erigere la torre di Babele. Quella torre che toccherebbero il cielo, mentre, il cielo, scenderebbe sulla terra per farsi terrestre.

Si tratta, quindi, di geometrie del linguaggio; topologie di ciascun organo, dove, per dirlo con il mito greco, Zeus avrebbe lanciato una saetta, quindi una verticale, dal cielo, dividendo l’uomo dalla donna, il corpo dalla mente, in maniera algebrica, fintato da dividere ciascun lacerto di carne, rendendolo polvere di sabbia.

Questo, il deserto dei sensi, dove l’Altro non c'è più.

Il fantasma schizofrenico è il camaleonte, da Zelig: le vite possibili. Vivere più vite, gestire più mogli e più mariti; amministrarli e compartimentali, perché tutto sia chiaro e inteso. D’un intesa naturale, dove la famiglia è naturale, anche la prigione è naturale, fino al nulla naturale: la sparizione. 

La macchina del tempo del fantasma schizofrenico, quindi, è la telepatia. Il linguaggio si trasmetterebbe senza equivoci, senza menzogna, senza malinteso. Tutto passa chiaramente, anche il dolore passa, fino alla vivisezione, quale indossabilità del taglio. Indossabilità del marchio: il vestito su misura.

Concludo con una parodia come modo dell'apertura tratta da -La gita- di Krishna:

“Io sono il tempo, io sono l’Altro”  

Francis

(In riferimento agli scritti di Giampaolo Lai, intorno la schizofrenia)

mercoledì 2 maggio 2012

Cose dell'altro Mondo!

La morte come enigma. Enigma del tempo. Enigma temporale: l’altra vita.  Occorre dire anche, “La vita altrove”. Qualcosa che non è di questo mondo. Altrimenti, ciò ch’è mondo e ciò ch’è immondo: questione d’immagine.

Tale questione s’apre intorno a una rilettura della nevrosi ossessiva. Intendo, ed è chiaro ai più, che le letture sono inedite, particolari e non competenti. Si tratta quindi di letture di discorsi, giammai di discorsi su letture, il cui lume consacrò l’epoca illuminista. 

Il terzo millennio, non ha più conteggio sulle ore, sul tempo. Questa, è l’epoca del fare, dove non c’è più, perché non c’è mai stata, l’idea di fine del tempo. L’idea circolare, quella immaginata, quella fatta.  L’immagine fatta che, rintracciata nell’espressione “detto fatto!”, risulta finita. 

Il presunto immaginabile è negazione dell’immagine, perché diviene possibile. Ma l'immagine è impossibile, è impensabile è inimmaginabile, è in-mentale perché intellettuale.  Se tale non fosse, la presunzione mentale si mostra nel sociale, e si rileva, con Babele, in tutto, dove tutti sono parte sistemica della costruzione. Ordinali e cardinali. Persi, insomma, fra i cardini di produzioni industriali. L’ironia: questione di meccanica. Meccanica sociale, la cui funzionalità, fa circolare il sangue nel corpo, segnando le ore di trasmissione dati.

Dall’orologio analogico all’orologio digitale, il conto è sempre sulle gocce di sangue versato, ma, attenzione, il taglio è sempre temporale. La schisi, lo sgarro, l’errore, scardina il macchinismo di morte, il luogo delle competenze innate, perché è la chiave per i cancelli del paradiso. Cose dell’altro mondo!

Jacques Derrida rintraccia un etimo particolare alla parola fantasma. Per lui esso è copia, copia del mondo. Copia di Dio. Copia mentalizzata, perché supposta, della conoscenza. Copia dell'Altro. Ma Giancarlo Calciolari vi denota, nei sui testi, una declinazione particolare, il fantasma è copia del vivente, copia impossibile della sembianza, della dimensione dell’immagine e del sembiante dell’oggetto. Il fantasma, è l'impossibile rappresentazione del pensiero.

Impossibile applicare il fantasma. impossibile psichiatrizzarlo, quindi localizzarlo. Il fantasma come discorso, il fantasma di padronanza di ciò di cui si discorre qui e là, nel discorso ossessivo, segna il colpo col terrore. Il terrore agibile, quello preso frai i cardini e soggettivato delle case farmaceutiche, si mentalizza, fino alla vergogna, per paura per la diversità artistica.

Il fantasma di produzione, dove la agenzie della conoscenza criticano, l'umano troppo umano, necessita, quindi, di decifrazione dei moti dell'anima, per instaurare la genetica dell'uguaglianza e della comunanza. L'idea di bene applicabile a tutti.

Che il fantasma agisce, presumendo la sua capacità di distruzione del logos, è solo una prerogativa del discorso occidentale che, s'apre, ai tagli di parola. Giammai si tratta di parola tagliata, grigliata e affettata, piuttosto la parola è taglio dove, il lapsus risulta come tentativo impossibile di economizzare la parola stessa.

La parola letta nel lapsus, non è più discorso come nevrosi soggettiva. Non è più discorso sul soggetto, alla morte, poiché non c’è più soggetto ossessivo, o nevrosi ossessiva, intesa come corpo: il corpo discorsivo. Ecco la novità! Niente è addomesticabile, perché niente è nulla, è stato della parola, non dell’ente, del soggetto, o dell’ente del soggetto, poiché ni-ente è nessun ente soggettivo. Nessun ente ontologico.  Nessun ente originale, perché le cose procedono dal due, non dal uno. Da duali a triali, nella logica della nominazione.

Giambattista Vico notava che il diritto non è la giustizia. Il diritto non è giudiziario. Non è messo al giudizio di qualcuno, di qualunque uno. Piuttosto il diritto e la poesia sono la base del pragma dove, ciascuno è puntuale nella sua impresa.

L’impresa è scommessa di vita. Scommessa, per l'ossessivo, di dissipare il fantasma circolare, quello che lo blocca facendolo girare in tondo, fino al mal di testa, per il terrore, alle porte del paradiso.

Cose dell’altro mondo!

Francis

mercoledì 25 aprile 2012

L'Uno, i racconti e la fantasia

[Continuazione]

"Mi aveva subito affascinato l'immagine costruita da Giulia, della fanciulla insanguinata e del suo compagno, entrambi immobili davanti alla finestra. Continuavo a pensarla e a ripensarla. Anzi, a guardarla e riguardarla ancora da tanti punti di vista, catturato dalla straordinaria presenza visiva dei due giovani, lei a sinistra, così mi si presentava di spalle, le due chiazze grandi di sangue appena al di sotto della cintura alta del vestito bianco lungo fino ai piedi, lui di profilo, gli occhi fissi sul volto dell'amata, senza alcun segno di turbamento, e sullo sfondo, oltre la finestra, le colline, verdi con gli arbusti gialli. Il fascino esercitato su di me da questa immagini derivava mi sembra dal contrasto tra lo strazio del corpo della fanciulla, ferito e sanguinate e l'immobilità delle forme perfette dei due amanti fissate in una bellezza estatica non toccata dal movimento del tempo e delle emozioni. O anche dall’ambiguità percettiva di due scene in sovraimpressione. Una scena di idillio trasognato di due giovani accanto ad una finestra, solo a cancellare le rosse chiazze di sangue dal vestito bianco della fanciulla, diventa immediatamente, appena si restituiscono le macchi all'abito, una scena surreale in cui una donna fa come se non fosse stata colpita a morte e il suo compagno ugualmente fa come se non vedesse il corpo che non può non vedere dell'amica ferita e sanguinante. Mi sembrava che questa immagine fosse riuscita a catturare, per poi trasmetterlo in linee semplici e straordinariamente esplicite, l'impatto delle vicende narrate da Giulia negli ultimi tempi. Quattro mesi prima della conversazione sopra trascritta, Giulia era stata operata di un tumore addominale. Successivamente, e il trattamento continuava al momento della nostra conversazione, Giulia era tata sottoposta ad un ciclo di irradiazioni sulla zona sede del tumore asportato. La morte, la morte del corpo, il corpo ce dà la morte, la rabbia, la sfiducia, l’impotenza di uno specchio senza rampini, lo stupore incredulo, il rammarico, il piagnisteo, il gioco breve della sfida sprezzante, il coro antico e il melodramma che avevano occupato, senza però dilagare, almeno non sempre, parte delle ultime conversazioni. Anche in questa su cui discutiamo, Giulia l'aveva aperta parlando di un freddo ai piedi, di noia, disperazioni, di morte, da dare e da ricevere, nella forma del rifiuto scomposto culminante al grido al terapeuta: "uccidi o mi uccido." Invocazione che potrebbe anche dare il titolo alla scena iniziale. Mentre il titolo appropriato per la scena degli amanti suonerebbe piuttosto: Come niente fosse. Da questa scena proveniva il rimprovero della fanciulla al compagno: "Io sto morendo e tu non fai niente per me." E nello stesso tempo giungeva la gratitudine verso l'amante: "Tu vedi il mio corpo straziato, ma non aggiungi inutile sofferenza mostrando la tua disperazione." O anche l'esortazione della fanciulla a se medesima: "Non è il caso di fare tante storie per una ferita o per una morte." Le stesse parole, ed altre, il terapeuta aveva sentito provenire a osé, da se stesso e da Giulia, nei giorni passati, come ora le sentiva provenire dai due amanti alla finestra. Si era occupato troppo, quando non era il caso, o non abbastanza quando sarebbe stato necessario del corpo ferito di Giulia? Aveva fissato con una indebita pena gli occhi sul sangue e sulla morte quando Giulia implorava di non essere vista, oppure aveva fatto come se non ci fossero il corpo, il sangue, la morte, quando al contrario Giulia aspettava il lenimento del compianto condiviso? Era di rimprovero il cenno che ora Giulia gli indirizzava, perché non si occupava del suo corpo avendole chiesto di raccontare una favola o di gratitudine perché mostrava di non vederlo?" [Disidentità, Lai Giampaolo]

Due amanti alla finestra, una donna ferita a morte e un giovane osservano l'orizzonte in lontananza e due amanti in una stanza, una donna stesa sul divano, l'analista alle sue spalle che conversano mentre i loro corpi stanno morendo. 
Le simmetrie dell'universo, dell'universo discorsivo di Giulia, della sua favola, e l'universo dove i corpi di Giulia e il conversante abitano uno spazio e un tempo preciso. Isomorfismi e parallelismi dell’inconsapevole disegno che parla attraverso il corpo, attraverso le parole, attraverso l’uomo, i popoli e le nazioni.
Un disegno che trascende la vita individuale e che connette le nostre storie a trame collettive, costituite su discorsi e metafore che sono copertura d’altro che sfugge all’individuo e che la clinica può concorrere a dipanare.
Oltre il velo del linguaggio, che nasconde ciò che vuole rivelare, che riempie gli spazi interstiziali della coscienza e la sostiene dandogli sostanza c’è quello che soltanto a nominarlo se ne tradisce l’essenza.

Riccardo

martedì 24 aprile 2012

L'Uno, i racconti e la fantasia

Amanti alla finestra.
Da Disidentità, Giampaolo Lai

Giulia: "Sono tutta confusa. Perché allora. Invece di chiederle un aiuto per farmi fuori, basta che continui così e mi faccio fuori da sola."
Conversante: "Mi racconti una favola."
Giulia: "Come?"
Conversante: "Mi racconti una favola."
Giulia (ride): "Una favola?"
Conversante: "si, una favola."
Giulia: "Non ne sono capace."
Conversante: "Non è capace di raccontare una favola."
Giulia: "C'era una volta una. Non ho voglia di raccontare una favola."
Conversante: "Va bene, non vuole raccontarmela."
Giulia: "Ma no, non ho fantasia. Si, non voglio raccontargliela. Come si cominciano le favole?"
Conversante: "l'ha già fatto, c'era una volta..."
Giulia: "C'era una volta. Adesso ho visto una cosa bellissima, una , forse, non è una compagna, è una collina, come quelle colline toscane, no, non so, sì, dove ci sono, colline morbide, non troppo alte, piene di verde, con prati gialli, mi viene in mente solo quello."
Conversante:"Si"
Giulia: "Ecco, un immenso panorama tutto fatto di fiori gialli, di verde. Adesso è spuntata una casa, con dei, una casa un po' grande, un po' castello, con dei merli, delle, specie di torri, con le cose a punta e con bandierine che sventolano, c'è un po' di vento e questo castellotto è solo in mezzo alla campagna, no, alla collina. Alla collina. Adesso ci vedo una persona, è così giovane,, siamo nel medioevo perché lei è vestita con una, anche lei con un cappello a punta, un vestito bianco, è sottile però non vedo la faccia. Dentro a questo castello c'è un grande cortile, ci sono dei cavalli. Quello che mi colpisce di più nella, in questa immagine, è l'aria, il profumo dell'aria pulita, aria frizzante, come se a respirarla una persona rivivesse. E poi all'interno del castello, con queste stanze tutte molto, senza tanti fronzoli, un po' come se stesse, mi viene in mente, come stanze di monache, però c'è una stanza tutta diversa, molto più calda, piena di cose femminili, un letto con tutta la coperta piena di pizzi, belle tende, tutta molto, non so, sì, cada, piena di cose, tutta un po' sul bianco, e poi c'è una bella finestra che guarda sulla collina, su questa campagna. Adesso mi sta venendo un senso di paura, perché mi è venuto da dirle, ma cosa, che cazzo ci sta a fare quella l' in mezzo a questo deserto, non può star da sola!"
Conversante: "Già."
Giulia: "E' saltato fuori un altro personaggio, sempre anche lui vestito in costume, tipo Robin Hood. L'altro giorno miche guardava, avevo un maglione lungo e mi ha detto che assomigliavo a Robin Hood (Ride).Adesso vedo questi due personaggio, ed è come, io questa cosa no n la vedo più come una cosa viva, non so come dirle, perché andando avanti c'è una specie di burrone, io potrei ruzzolarci dentro, e allora ho bisogno di pietrificare questi due personaggi, non vederli più come persone vive, perché non riesco a immaginarle.. Adesso però mentre dicevo così, lei la ragazza, continuava a vivere, mi immaginavo che avesse, sotto queste vesti bianche un corpo bellissimo, cioè snello ma sodo, formato, giovane, e adesso riprovo la sensazione di scivolare nel burrone. Mi ricordo un giorno che lei mi faceva immaginare di poter avere un rapporto sessuale, e io il ricordo di Londra, una grande stanza sul Tamigi, e poi non ero riuscita ad immaginare nient'altro. E' un po' la stessa cosa che mi sta accadendo adesso. Due persone, medioevo, giovani, in una stanza molto bella e non riesco ad immaginare nient'altro. Anzi mi è venuto anche mal di stomaco qui sotto al seno, sotto lo sterno, mi fa male, molto male, ho una paura matta, proprio."
Conversante: "E i due giovani sono ancora lì?"
Giulia: "Sì, sono ancora lì"
Conversante: "E cosa fanno?"
Giulia: "Guardano fuori dalla finestra, immobili, non riescono mica a muoversi. Ed è tutto così bello, sarebbe bello voglio dire, invece a me dà una grande angoscia. Ho immaginato piena di sole questa collina, questa campagna così collinosa, piena di fiori, piena di luci, e adesso se potessi metterei dei drappi viola alle finestre. Infatti prima immaginavo le stanze all'interno, così' spoglie e fredde, illuminate da quelle feritoie nella parte alta dei muri, e invece poi questa stanza improvvisamente era diventata una stanza con grandissime finestre che guardavano la campagna, e una grande luce entrava, il sole poteva entrare così, a suo piacimento, tranquillo, caldo. Adesso tutta questa primavera, così, mi fa una grande paura, perché non riesco a fermarla. Sono arrivata a pensare che questa fanciulla così bella, di cui non vedo il viso, di cui vedo solo il vestito bianco, ho immaginato una spada che la colpisse, e vedevo un sacco di sangue saltare fuori. Mia madre ieri mi ha colpito (racconta di una telefonata con la madre, a lungo, nei dettagli)."
Conversante: "Che cosa stanno facendo i due alla finestra?"
Giulia: "Lei è coperta di sangue. Esce da tre o quattro ferite che ha sulla, sul corpo. e sotto il vestito bianco, io non le vedo sotto il vestito bianco è una spada che le ha dato un colpo sotto il seno, un taglio lunghissimo, lungo come quello di una spada."
Conversante: "Chi è stato?"
Giulia: "Non è stato lui, è arrivata la spada così."
Conversante: "E lui non dice niente, non fa niente."
Giulia: "No. cosa dovrebbe fare? Ho pensato che gli facesse schifo il sangue. Non è mica una bella visione, questa qui che prima era tutta pulitina, tutta bella, stavo dicendo, non è sangue delle mestruazioni è sangue di una, che si fa dalle ferite."
Conversante: "E lei cosa fa adesso?"
Giulia: "E' immobile."
Conversante: "Riesce a stare in piedi, immobile, con tutto quel sangue che continua a perdere."
Giulia: "E' molto forte. Non riesce a svenire. Pensi, non riesco a farla svenire. Non riesco nemmeno ad andare oltre."

[Continua]

mercoledì 18 aprile 2012

I buoni cani

Canto il cane lercio, il cane senza dimora,
il cane girovago, il cane saltimbanco, il cane il cui istinto,
come quello del povero, dello zingaro e dell’istrione,
è meravigliosamente pungolato dalla necessità,
questa buona madre, vera patrona delle intelligenze!
Canto i cani delle disgrazie, sia quelli che vagano solitari
per le gole sinuose delle immense città, sia quelli che
hanno detto all’uomo derelitto, con i loro occhi scintillanti
e profondi: “Prendimi con te, e delle nostre due miserie
faremo forse una sorta di felicità!”.

Charles Baudelaire. - Spleen de Paris-.

domenica 15 aprile 2012

Ode alla vita


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.
Martha Medeiros

domenica 1 aprile 2012

Come granelli di sabbia

Il silenzioso logorio dell'immensa tristezza dello spirito.
All'esterno esponi artificiosi sorrisi
e mimi emozioni che non ti appartengono;
fai così con la mano per salutare le persone
dici buongiorno e buonasera per tutta la vita;
assorbi suoni e rumori di cui faresti volentieri a meno.
E intanto appassisci.
Poi una mattina ti svegli:
ti guardi le mani
ti guardi allo specchio
La pelle dura e tirata.
Una patina biancastra che ti opprime un occhio.
Sei tutto curvo e lento nei riflessi.
E' troppo tardi. Sta per calare il sipario.
E i rimpianti germogliano come le erbacce.

- Amedeo 'Vincent' Di Luna -


venerdì 23 marzo 2012

Poesia senza titolo

Vivere e morire per la donna più grande
la melodia del suono più dolce
il vino più inebriante;
un immagine in bianco e nero
un'idea romantica
un ideale utopico.
Vorrei morire dopo aver suonato la canzone perfetta
la musica del mondo intero,
dopo aver cantato la poesia di tutti gli uomini.
Vorrei salire sulla montagna più alta
e gridare forte il mio amore.
Facce anonime senza nome
e senza storia.
E dopo tutto questo
vorrei morire.
La morte è la fine di quel film
che noi tutti chiamiamo vita,
dove se non è successo almeno un fatto
che meriti di essere ricordato,
allora l'attesa della morte sarà angosciante.
Vecchi e stupidi sotto le coperte di un letto malconcio,
in attesa di essere portati via.

Amedeo 'Vincent' Di Luna

sabato 17 marzo 2012

L'artificio Intellettuale


Sulla lettura del romanzo del 1964, ma pubblicato in Italia solo trentatre anni dopo, nel 1997, -The Simulacra – I Simulacri (edizione TIF, 7.90 euro), Philip Kindred Dick dona una descrizione talvolta paradossale, talvolta originale, degli anni della politica dell’America Kennediana in soluzione fantascientifica. 

L’artificio originale è quello di dio in provetta. In soluzione. Ma la solubilità di dio risulta troppo diluita, e lo scacco algebrico fa acqua. 

La coerenza, che vuole essere sfuggevole per la sua narrazione frammentata -frazionata- non si trova nella trama come già data, ma nella costruzione propria di quest’ultima. La bottega delle esperienze, dei tratti, delle cifre, quadrano l’infinita parola fantascientifica. 

L’autore immagina una fusione topologica tra l’Europa e gli Stati Uniti, diventati USEA: Stati Uniti d’Europa e d’America, nati dalla fusione in piena Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e la Germania. La Germania di Adenauer. 

Dick pare da subito tagliato per la politica, per l’araldica della politica, infatti a capo di questa grande fusione c’è la First Lady Nicole Thibodeaux. Una donna di elegante finezza, di un infinito sapere, che presiede i cuori di ogni buon cittadino fedele. 

La sua impresa, nella sua imperiale funzione, è quella di gerarchizzare, manipolare e educare i suoi fedeli a reti unificate, e il personaggio in cerca d’autore fugge, trovando come unico punto di fuga, l’Universo. 

L’emigrazione su altri pianeti, naturalmente risulta, per ognuno e in ogni modo, proibita da sua maestà gourmet. E così, la paura per il grande giudice, mette a dura prova quelle poche anime temerarie, lasciando di resto la maggior parte dei cittadini a spettacolarizzare, in un talk show, la propria arte e passione.
Ma l’osceno deve ancora arrivare, il Simulacro, Simula-crum che simula, si deve ancora rappresentare. Deve ancora volgere la sua riproduzione tecnica. La riproduzione di se stesso, la copia esponenziale della logia e della gnosi del suo corpo. La trascrizione rigorosa del sogno Laplaciano è la conoscenza del tempo di un istante, dove il corpo può essere infinitamente immortalato nella sua completezza. La completezza del soggetto, quello che si sveste o si veste, secondo l’occasione, in Nome del Padre. 

La questione si fa simbolica. Sergio Benvenuto in La gelosia –edizione Il mulino- scrive della madre: “la madre è geneticamente programmata”, lei dà l’imprinting. Così, distinguendo al meno quattro fasi dell’attaccamento madre- macchina, l’unica differenza sembra essere il fine. Lo scopo. Nella macchina dice Sergio Benvenuto, la riproduzione ha uno scopo, mentre la macchina vivente (l’uomo incluso) non ha scopo. È senza gravità. È l’uomo che deve solo godere della quantità che il mercato dona. E i droghieri del globo propinano due soluzioni alchemiche, il corpo senza organi quello di Artaud e il corpo disunito –fratto- di W. Benjamin che scrive, a proposito del funzionamento dell’inconscio, d’inconscio istintuale. Forse era riferito a un istinto suicida. 

E così nasce il simulacro collettivo, dove l’organismo è animato da un sovra ordine simbolico, che da il via a un metabolismo gnosologico e alla capacità di trasformare il cibo e i liquidi. Il mantenimento del tono è solo muscolare e il talento è solo meccanico. Le buon’anime fedeli sono condannate nel girone della lussuria, dove non mancano fatica e sonno, che, grazie alla fabbricazione di virus, di mercati di virus, in provetta, gli stati psichici trasmutano secondo prescrizione medica. Insomma un vero e proprio noi stessi, la cui interfaccia chimica rappresenta l’immaginario di un corpo “immortale”. 

Cancellando il confine tra natura e cultura, tra il dentro e il fuori, tra l’interno e l’esterno Philip Dick, indotto da una droga divinizzata sovverte le istanze logiche, e orienta il suo occhio oltre i limiti dei modelli sistemici, proiettandosi nella galassia. Ma il contrappasso è tecnico e la cronologica è potenziale. 

I dinamismi sono sempre gli stessi, la taglia è sempre su Dio/Gene. 

Un Dio non dio. Un dio divinizzato. 

La demitificazione porta alla divinazione del discorso. Il discorso è sempre quello dell’Altro. Dal Guru, - il santone-, fino all’uomo New Age, il Profeta. E su questo principio di ragione la beatitudine è sempre nella genetica della pasticca. Ma l’artificio è la quadratura del cerchio artificiale/naturale. Il dispositivo è intellettuale. La parola è fantascienza. La cifra è simula- crum l’esperienza/strumento vitale. L’agirArte, l’artificio, è il secondo rinascimento. L’ateismo e il teismo, il teofagismo scrive Giancarlo Calciolari, è di Madame Gourmet la cui anoressia mentale la trascina a divorare i cuori dei suoi cittadini. La sua parola è infernale. Il desiderio di avere gli animi delle persone svela la sua finezza culinaria. L’anfibologia della sua bocca predilige le autostrade midollari, spinali e venali, con un particolare accento sulle pulsionali. La sua epoché segna il conto delle ore di trasmissione e manipolazione genetica. Una questione di principio che stabilisce una linea dell’effettivo problema. La vita contro il sapere. La vita divina e il sapere divinizzato. Il problema è filosofico? 

La conoscenza, il sapere supposto nell’altro, trova soluzione nella batteria del pensiero comune, che esclude il terzo. L’altro. Al quale, se io è l’altro, all’altro s’impone la legge della divina concessione. Amen. E così la First Lady Nicole Thibodeaux gioca sull’etichetta piuttosto che sull’obbligo della sua etica. Lei si diverte a esibire il galà della cera, la geometria dell’imago, l’oscenità della sembianza. Il sistema teofagico è decisamente formale e logicista: di riduzione logica; quella di Russell, che intendeva ridurre tutta la matematica in logica. La cera è il dispositivo d’apertura. 

L’ateismo è il Pharmakon moderno. L’altra faccia del teismo. Una faccia della stessa medaglia. L’UNsieme. È l’uno che si divide in due nell’infinito duplicato del duplicato, fino a inghiottirsi da solo. La bottiglia di Felix Klein o -il nastro di Möbius-. Una bottiglia non orientabile, dove non c’è più dentro o fuori. Bene o male, vero o falso. È la bottiglia del nulla. Del dio che non accetta né l’uno né il due, perché sia l’uno che il due sono troppo sostanziali/materiali. E così Philip Dick parte per l’Universo. Per l’insieme. Per la comunità. Per essere la sostanza di una nuova civiltà su Marte dove, in una notte di giubilo, si muore di nulla. Di un vuoto incommensurabile. La medicina…, il Pharmakon moderno? La potenza sessuale. La rimozione del nome che rende divina alchimia sessuale. Ma il paradosso per i simulacri di unità oscene è che 2+2= 4. La quadratura è di ciascuno. È politica, ma non è la politica di ogni simulacro. L’astrazione è necessaria e l’artificio intellettuale.

Francis

La lingua savant

Il rapporto che ho con la lingua è estetico, nel senso che trovo alcune parole o combinazioni di parole particolarmente belle e stimolanti. A volte leggo e rileggo una certa frase per le sensazioni che suscita in me. I sostantivi sono le mie parole preferite, perché sono le più semplici da visualizzare. Ho un ottima memoria visiva, e quando leggo una parola o una frase chiudo gli occhi e la visualizzo, dopodiché la ricordo perfettamente. Vi sono alcuni aspetti della lingua che trovo più problematici di altri. Le parole astratte sono molto più difficili da capire per me e ho un'immagine mentale di ognuna che mi aiuta ad afferrarne il significato. Ad esempio la parola “complessità” mi fa pensare ad una treccia di capelli con varie ciocche che formano un insieme composito. Allo stesso modo la parola “trionfo” evoca nella mia mente l'immagine di un grande trofeo dorato. Se sento parlare del “trionfo elettorale” di un politico, immagino quest'ultimo che solleva un trofeo sopra la testa come l'allenatore di una squadra di calcio. Alcune strutture sintattiche sono particolarmente complicate da analizzare per me, come: "non è inesperto in queste cose", dove le due negative (non e in) si annullano. Da bambino trovavo decisamente oscure le espressione idiomatiche. Quando sentivo che qualcuno aveva del fegato pensavo: ma non lo abbiamo tutti il fegato? […]
Da bambino accarezzai per anni l'idea di creare una lingua tutta mia per alleviare la mia solitudine e godere del piacere che provavo giocando con le parole. A volte, quando sentivo un'emozione particolarmente forte o mi trovavo di fronte a qualcosa di molto bello, nella mia mente si formava spontaneamente una parola nuova che non avevo idea da dove venisse. Allo stesso modo, trovavo spesso al lingua dei miei coetanei stridente e confusa. Venivo preso in giro perché usavo frasi lunghe, accurate ed eccessivamente formali e, quando ricorrevo a uno dei miei neologismi per esprimere ciò che sentivo, non venivo quasi mai capito. I miei genitori mi dicevano di smettere di "parlare di modo strano". Malgrado ciò, continuai a sognare che un giorno avrei parlato una lingua tutta mia che mi avrebbe aiuto ad esprimermi compiutamente e che non sarei stato preso in giro o rimproverato per il fatto di utilizzarla. Quando smisi di studiare mi resi conto che avevo il tempo di perseguire seriamente quell'idea. Scrivevo le parole che mi venivano in mente e sperimentavo diverse possibilità di pronuncia e di costruzione delle frasi. Battezzai la mia lingua "manti" dal finlandese “manty” che significa pino. Molte delle parole del manti sono di origine baltica e scandinava cosi come i pini sono originari dell'emisfero boreale e sono particolarmente diffusi in Scandinavia e nella regione baltica. Ma c'è un altro motivo per la scelta di questo nome: i pini crescono spesso insieme in grandi gruppi e simboleggiano l'amicizia e la collettività.
Il manti è provvisto di una sua grammatica e di un vocabolario composto da oltre mille parole, ed è in continuo divenire. Ha attratto l'interesse di numerosi studiosi del linguaggio che ritengono possa contribuire a far luce sulle capacità linguistiche che condivido con altri savant.
Uno degli aspetti che amo di più di giocare con la lingua è la creazione di nuove parole e idee. Nel manti cerco di fare in modo che le parole riflettano i rapporti fra cose diverse: “hamma” (dente) e “hemme” (formica, un insetto che morde) e “rat” (cavo) e “ratio” (radio). Alcune parole hanno significati multipli e correlati: “puhu”, ad esempio, può significare vento, respiro e spirito.
Il manti possiede molte parole composite: “puhekello” (telefono, letteralmente “campana parlante”), “ilmalav” (aeroplano, letteralmente “nave dell'aria”) “tontoo” (musica, letteralmente “arte del tono”) e “ratalo” (parlamento, letteralmente “luogo di discussione”) .
Quanto ai termini astratti, vi sono diversi modi per esprimerli. Uno è la creazione di un composto: il concetto di ritardo si traduce con “kellokult” (letteralmente “debito di orologio”). Un altro metodo consiste nell'utilizzare coppie di parole, come avviene in estone, lingua appartenente al ceppo ugro-finnico. L'equivalente del manti del termine latticini è “pimat kermat” (latte e panne); quello di calzature è invece “koet saapat" (scarpe e stivali).
Sebbene il manti sia molto diverso dall'inglese, possiede molti termini facilmente riconoscibili dagli anglofoni come “nekka” (collo), “kuppi” (tazza) “purassi” (portafogli) “noot” (notte) e “pepi” (bimbo). Il manti è l'espressione tangibile e comunicabile del mio mondo interiore. Ogni parola, con i suoi colori e la sua consistenza è per me un'opera d'arte. Quando penso o parlo in manti è come se dipingessi con le parole. [Da Nato in giorno azzurro, Daniel Tammet]