venerdì 23 marzo 2012

Poesia senza titolo

Vivere e morire per la donna più grande
la melodia del suono più dolce
il vino più inebriante;
un immagine in bianco e nero
un'idea romantica
un ideale utopico.
Vorrei morire dopo aver suonato la canzone perfetta
la musica del mondo intero,
dopo aver cantato la poesia di tutti gli uomini.
Vorrei salire sulla montagna più alta
e gridare forte il mio amore.
Facce anonime senza nome
e senza storia.
E dopo tutto questo
vorrei morire.
La morte è la fine di quel film
che noi tutti chiamiamo vita,
dove se non è successo almeno un fatto
che meriti di essere ricordato,
allora l'attesa della morte sarà angosciante.
Vecchi e stupidi sotto le coperte di un letto malconcio,
in attesa di essere portati via.

Amedeo 'Vincent' Di Luna

sabato 17 marzo 2012

L'artificio Intellettuale


Sulla lettura del romanzo del 1964, ma pubblicato in Italia solo trentatre anni dopo, nel 1997, -The Simulacra – I Simulacri (edizione TIF, 7.90 euro), Philip Kindred Dick dona una descrizione talvolta paradossale, talvolta originale, degli anni della politica dell’America Kennediana in soluzione fantascientifica. 

L’artificio originale è quello di dio in provetta. In soluzione. Ma la solubilità di dio risulta troppo diluita, e lo scacco algebrico fa acqua. 

La coerenza, che vuole essere sfuggevole per la sua narrazione frammentata -frazionata- non si trova nella trama come già data, ma nella costruzione propria di quest’ultima. La bottega delle esperienze, dei tratti, delle cifre, quadrano l’infinita parola fantascientifica. 

L’autore immagina una fusione topologica tra l’Europa e gli Stati Uniti, diventati USEA: Stati Uniti d’Europa e d’America, nati dalla fusione in piena Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e la Germania. La Germania di Adenauer. 

Dick pare da subito tagliato per la politica, per l’araldica della politica, infatti a capo di questa grande fusione c’è la First Lady Nicole Thibodeaux. Una donna di elegante finezza, di un infinito sapere, che presiede i cuori di ogni buon cittadino fedele. 

La sua impresa, nella sua imperiale funzione, è quella di gerarchizzare, manipolare e educare i suoi fedeli a reti unificate, e il personaggio in cerca d’autore fugge, trovando come unico punto di fuga, l’Universo. 

L’emigrazione su altri pianeti, naturalmente risulta, per ognuno e in ogni modo, proibita da sua maestà gourmet. E così, la paura per il grande giudice, mette a dura prova quelle poche anime temerarie, lasciando di resto la maggior parte dei cittadini a spettacolarizzare, in un talk show, la propria arte e passione.
Ma l’osceno deve ancora arrivare, il Simulacro, Simula-crum che simula, si deve ancora rappresentare. Deve ancora volgere la sua riproduzione tecnica. La riproduzione di se stesso, la copia esponenziale della logia e della gnosi del suo corpo. La trascrizione rigorosa del sogno Laplaciano è la conoscenza del tempo di un istante, dove il corpo può essere infinitamente immortalato nella sua completezza. La completezza del soggetto, quello che si sveste o si veste, secondo l’occasione, in Nome del Padre. 

La questione si fa simbolica. Sergio Benvenuto in La gelosia –edizione Il mulino- scrive della madre: “la madre è geneticamente programmata”, lei dà l’imprinting. Così, distinguendo al meno quattro fasi dell’attaccamento madre- macchina, l’unica differenza sembra essere il fine. Lo scopo. Nella macchina dice Sergio Benvenuto, la riproduzione ha uno scopo, mentre la macchina vivente (l’uomo incluso) non ha scopo. È senza gravità. È l’uomo che deve solo godere della quantità che il mercato dona. E i droghieri del globo propinano due soluzioni alchemiche, il corpo senza organi quello di Artaud e il corpo disunito –fratto- di W. Benjamin che scrive, a proposito del funzionamento dell’inconscio, d’inconscio istintuale. Forse era riferito a un istinto suicida. 

E così nasce il simulacro collettivo, dove l’organismo è animato da un sovra ordine simbolico, che da il via a un metabolismo gnosologico e alla capacità di trasformare il cibo e i liquidi. Il mantenimento del tono è solo muscolare e il talento è solo meccanico. Le buon’anime fedeli sono condannate nel girone della lussuria, dove non mancano fatica e sonno, che, grazie alla fabbricazione di virus, di mercati di virus, in provetta, gli stati psichici trasmutano secondo prescrizione medica. Insomma un vero e proprio noi stessi, la cui interfaccia chimica rappresenta l’immaginario di un corpo “immortale”. 

Cancellando il confine tra natura e cultura, tra il dentro e il fuori, tra l’interno e l’esterno Philip Dick, indotto da una droga divinizzata sovverte le istanze logiche, e orienta il suo occhio oltre i limiti dei modelli sistemici, proiettandosi nella galassia. Ma il contrappasso è tecnico e la cronologica è potenziale. 

I dinamismi sono sempre gli stessi, la taglia è sempre su Dio/Gene. 

Un Dio non dio. Un dio divinizzato. 

La demitificazione porta alla divinazione del discorso. Il discorso è sempre quello dell’Altro. Dal Guru, - il santone-, fino all’uomo New Age, il Profeta. E su questo principio di ragione la beatitudine è sempre nella genetica della pasticca. Ma l’artificio è la quadratura del cerchio artificiale/naturale. Il dispositivo è intellettuale. La parola è fantascienza. La cifra è simula- crum l’esperienza/strumento vitale. L’agirArte, l’artificio, è il secondo rinascimento. L’ateismo e il teismo, il teofagismo scrive Giancarlo Calciolari, è di Madame Gourmet la cui anoressia mentale la trascina a divorare i cuori dei suoi cittadini. La sua parola è infernale. Il desiderio di avere gli animi delle persone svela la sua finezza culinaria. L’anfibologia della sua bocca predilige le autostrade midollari, spinali e venali, con un particolare accento sulle pulsionali. La sua epoché segna il conto delle ore di trasmissione e manipolazione genetica. Una questione di principio che stabilisce una linea dell’effettivo problema. La vita contro il sapere. La vita divina e il sapere divinizzato. Il problema è filosofico? 

La conoscenza, il sapere supposto nell’altro, trova soluzione nella batteria del pensiero comune, che esclude il terzo. L’altro. Al quale, se io è l’altro, all’altro s’impone la legge della divina concessione. Amen. E così la First Lady Nicole Thibodeaux gioca sull’etichetta piuttosto che sull’obbligo della sua etica. Lei si diverte a esibire il galà della cera, la geometria dell’imago, l’oscenità della sembianza. Il sistema teofagico è decisamente formale e logicista: di riduzione logica; quella di Russell, che intendeva ridurre tutta la matematica in logica. La cera è il dispositivo d’apertura. 

L’ateismo è il Pharmakon moderno. L’altra faccia del teismo. Una faccia della stessa medaglia. L’UNsieme. È l’uno che si divide in due nell’infinito duplicato del duplicato, fino a inghiottirsi da solo. La bottiglia di Felix Klein o -il nastro di Möbius-. Una bottiglia non orientabile, dove non c’è più dentro o fuori. Bene o male, vero o falso. È la bottiglia del nulla. Del dio che non accetta né l’uno né il due, perché sia l’uno che il due sono troppo sostanziali/materiali. E così Philip Dick parte per l’Universo. Per l’insieme. Per la comunità. Per essere la sostanza di una nuova civiltà su Marte dove, in una notte di giubilo, si muore di nulla. Di un vuoto incommensurabile. La medicina…, il Pharmakon moderno? La potenza sessuale. La rimozione del nome che rende divina alchimia sessuale. Ma il paradosso per i simulacri di unità oscene è che 2+2= 4. La quadratura è di ciascuno. È politica, ma non è la politica di ogni simulacro. L’astrazione è necessaria e l’artificio intellettuale.

Francis

La lingua savant

Il rapporto che ho con la lingua è estetico, nel senso che trovo alcune parole o combinazioni di parole particolarmente belle e stimolanti. A volte leggo e rileggo una certa frase per le sensazioni che suscita in me. I sostantivi sono le mie parole preferite, perché sono le più semplici da visualizzare. Ho un ottima memoria visiva, e quando leggo una parola o una frase chiudo gli occhi e la visualizzo, dopodiché la ricordo perfettamente. Vi sono alcuni aspetti della lingua che trovo più problematici di altri. Le parole astratte sono molto più difficili da capire per me e ho un'immagine mentale di ognuna che mi aiuta ad afferrarne il significato. Ad esempio la parola “complessità” mi fa pensare ad una treccia di capelli con varie ciocche che formano un insieme composito. Allo stesso modo la parola “trionfo” evoca nella mia mente l'immagine di un grande trofeo dorato. Se sento parlare del “trionfo elettorale” di un politico, immagino quest'ultimo che solleva un trofeo sopra la testa come l'allenatore di una squadra di calcio. Alcune strutture sintattiche sono particolarmente complicate da analizzare per me, come: "non è inesperto in queste cose", dove le due negative (non e in) si annullano. Da bambino trovavo decisamente oscure le espressione idiomatiche. Quando sentivo che qualcuno aveva del fegato pensavo: ma non lo abbiamo tutti il fegato? […]
Da bambino accarezzai per anni l'idea di creare una lingua tutta mia per alleviare la mia solitudine e godere del piacere che provavo giocando con le parole. A volte, quando sentivo un'emozione particolarmente forte o mi trovavo di fronte a qualcosa di molto bello, nella mia mente si formava spontaneamente una parola nuova che non avevo idea da dove venisse. Allo stesso modo, trovavo spesso al lingua dei miei coetanei stridente e confusa. Venivo preso in giro perché usavo frasi lunghe, accurate ed eccessivamente formali e, quando ricorrevo a uno dei miei neologismi per esprimere ciò che sentivo, non venivo quasi mai capito. I miei genitori mi dicevano di smettere di "parlare di modo strano". Malgrado ciò, continuai a sognare che un giorno avrei parlato una lingua tutta mia che mi avrebbe aiuto ad esprimermi compiutamente e che non sarei stato preso in giro o rimproverato per il fatto di utilizzarla. Quando smisi di studiare mi resi conto che avevo il tempo di perseguire seriamente quell'idea. Scrivevo le parole che mi venivano in mente e sperimentavo diverse possibilità di pronuncia e di costruzione delle frasi. Battezzai la mia lingua "manti" dal finlandese “manty” che significa pino. Molte delle parole del manti sono di origine baltica e scandinava cosi come i pini sono originari dell'emisfero boreale e sono particolarmente diffusi in Scandinavia e nella regione baltica. Ma c'è un altro motivo per la scelta di questo nome: i pini crescono spesso insieme in grandi gruppi e simboleggiano l'amicizia e la collettività.
Il manti è provvisto di una sua grammatica e di un vocabolario composto da oltre mille parole, ed è in continuo divenire. Ha attratto l'interesse di numerosi studiosi del linguaggio che ritengono possa contribuire a far luce sulle capacità linguistiche che condivido con altri savant.
Uno degli aspetti che amo di più di giocare con la lingua è la creazione di nuove parole e idee. Nel manti cerco di fare in modo che le parole riflettano i rapporti fra cose diverse: “hamma” (dente) e “hemme” (formica, un insetto che morde) e “rat” (cavo) e “ratio” (radio). Alcune parole hanno significati multipli e correlati: “puhu”, ad esempio, può significare vento, respiro e spirito.
Il manti possiede molte parole composite: “puhekello” (telefono, letteralmente “campana parlante”), “ilmalav” (aeroplano, letteralmente “nave dell'aria”) “tontoo” (musica, letteralmente “arte del tono”) e “ratalo” (parlamento, letteralmente “luogo di discussione”) .
Quanto ai termini astratti, vi sono diversi modi per esprimerli. Uno è la creazione di un composto: il concetto di ritardo si traduce con “kellokult” (letteralmente “debito di orologio”). Un altro metodo consiste nell'utilizzare coppie di parole, come avviene in estone, lingua appartenente al ceppo ugro-finnico. L'equivalente del manti del termine latticini è “pimat kermat” (latte e panne); quello di calzature è invece “koet saapat" (scarpe e stivali).
Sebbene il manti sia molto diverso dall'inglese, possiede molti termini facilmente riconoscibili dagli anglofoni come “nekka” (collo), “kuppi” (tazza) “purassi” (portafogli) “noot” (notte) e “pepi” (bimbo). Il manti è l'espressione tangibile e comunicabile del mio mondo interiore. Ogni parola, con i suoi colori e la sua consistenza è per me un'opera d'arte. Quando penso o parlo in manti è come se dipingessi con le parole. [Da Nato in giorno azzurro, Daniel Tammet]

La lingua schizofrenica

[...]Infatti scrivevo in "lingua" cioè, nel mio linguaggio segreto, usando espressioni e parole che sorgevano improvvisamente in me o che io stessa costruivo; poiché non mi sarei mai sentita in diritto di scrivere con parole vere. In questo caso la Regina avrebbe avuto il diritto di punirmi, poiché le lamentele che le indirizzavo erano accusatrici e ostili. Quando scrivevo in "lingua" mi indirizzavo alla vera Mamma, alla Mamma delle mele che amavo e che mi amava. Ma la vera mamma non poteva comprendere, poiché la Regina onnipotente e temibile l'aveva completamente sostituita. [...] Ebbi ancora crisi di colpevolezza; in quei momenti il mio dolore morale era infinito e piangevo per ore gridando "Raite, raite, raite, was habe ich gemacht?". Esprimevo spesso le mie lamentele in "lingua", usavo cioè parole incomprensibili, di cui alcune si ripetevano continuamente, come: "ichtiou, gao, itivarè gibastou, Ovèdè, ecc.". Non mi sforzavo ad inventarle; venivano spontaneamente e non significavano nulla per conto loro; erano il tono, il ritmo e la pronuncia che possedevano un senso. Mi lamentavo con queste parole esprimendo il profondo dolore e l'infinita desolazione che avevo in cuore. Non usavo le parole abituali poiché il mio dolore e la mia desolazione non avevano un oggetto reale. [Da Diario di una schizofrenica, Marguerite A. Sechehaye]

martedì 13 marzo 2012

Poichè l'amore è
come il gioco
dell'aquilone,
ha un senso solo se
ci si gioca
a distanza di spago,

se l'azzardo lo tira
troppo vicino a se,
l'amato perde
la forza di levità
che lo rende mistico.

Riccardo

Ricordo


Ebbene il monile ricordo
Che, nonostante mi sforzi ,
pellegrina mesto,
Errante s’affretta.

Ma colui la cui maestà attende,
sull’anulare s’acquieta,
e in un sodalizio di sangue
beve e poi disprezza.

È la farfalla della notte.
L’albatro, il crepuscolo,
è il pleonasmo dell’impresa
la cui discrezione del viaggio
sul taglio, sulla scena,
-narra –
ciò che mi lega
ciò che m’incatena. 

Francis

lunedì 12 marzo 2012

"Solitudine"


Essere l'unica stella
visibile nello spazio nero.
Coccolata dal silenzio
e da pensieri rumorosi,
che fanno eco.
Essere la stella di qualcuno,
che si ama e si desidera,
ma da lontano
e in tacito silenzio.

- Amedeo 'Vincent' Di Luna -

domenica 11 marzo 2012

"Pulp" di Charles Bukowski... storia di pallottole, donne fatali e nostalgia...


Charles l'ubriacone, il beone da taverna, il genio, l'alcolizzato, il pittore di una fetta di società rattrappita e accartocciata - esattamente come lo era lui - a un angolo di una strada. Meglio conosciuto come Hank, detto anche Gambe da elefante. A metà strada tra un genio e un fallito. Il vecchio Bukowski ha finalmente ritrovato la strada di casa, messo a tacere i suoi demoni, le insicurezze trascinate dietro - come lo strascico di un vecchio vestito malmesso - per tutta la vita. Uno di quegli scrittori che non ha fatto altro che parlare di sé. E quale errore più grande, per uno scrittore, che mettere al centro dell'attenzione il proprio ego (in maniera esplicita si intende). E' come un uomo, che al suo primo appuntamento, non fa altro che parlare di sé stesso. Diventa noioso, appare come uno nevrotico che sente il bisogno di esternarsi, di risolvere i propri conti con i conflitti inconsci ansiogeni del suo io. Eppure lui piaceva - seppure il successo sia giunto in età avanzata - la gente comune, i poveri diavoli ci si rispecchiavano. Non vedevano dinanzi a sé un artista distante, un intellettuale pomposo e arrogante, un letterato rinchiuso nella sua erudita gabbia di cultura che di solito viene negata alla maggior parte della gente comune. Ma un eroico perdente, un uomo fidato, con cui poter scambiare quattro chiacchiere davanti a un boccale di birra, l'intellettuale dei derelitti e degli incompresi di tutto il mondo. Certo, sempre se non gli saltava la mosca al naso, per decidere di punto in bianco di mandarvi a fare in culo. O addirittura di prendervi a botte sul retro di un locale di infimo ordine. Come un vero boxeur, un combattente della strada, come il vecchio Hemingway, il più duro dei duri tra i letterati. Sempre pronto a combattere, ad afferrare la vita con i denti per farla sanguinare, per non essere "come tutti gli altri", per cercare di vivere la vita ogni giorno, per sentirla ruggire dentro, per ingannare la morte nel miglior modo possibile, per non lasciarsi anestetizzare dalla "non vita". "Vorrei essere seppellito vicino all'ippodromo, per sentire la volata sulla dirittura d'arrivo"... colui che si è preso gioco della morte fino alla fine, perché l'unico modo per raggirarla, per trattarla da vera puttana, è quello di stuprarla con l'arma dell'ironia, di  vivere la vita minuto per minuto, senza mezzi termini o mezze misure, per non rischiare di impazzire definitivamente.
Bevitore, scommettitore incallito e animale randagio... e dopo tutto questo è venuto forse il momento di riposarsi, di mettere da parte sé stessi e di ricercare qualcos'altro. E alla "veneranda" età di settantaquattro anni, scrive il suo piccolo testamento letterario, la sua perla, distante e allo stesso tempo vicina alla sua poetica, che si riappropria di un genere romantico appartenuto a un epoca ancora più romantica, ma senza mai tradire il suo stile e senza mai perdere di vista gli aspetti più autobiografici che hanno da sempre contraddistinto le sue opere letterarie. Parliamo di "Pulp", il suo ultimo romanzo, forse uno dei più ironici e romantici, e forse il più diverso proprio perché quello meno autobiografico.
 Come suggeriva la più famosa opera di Quentin Tarantino, "Pulp Fiction", all'inizio del film, con la sua definizione da dizionario: Pulp/1. Un morbido, umido ammasso di materia senza forma.
                                              2. Una rivista o un libro contenente un argomento scandaloso e
                                                  generalmente stampato su carta ordinaria.
Storie di sesso e violenza fine a sé stesse. Di gangster e donne fatali. Pagine macchiate di sangue  e di affari loschi. Quindi ecco Bukowski cimentarsi nei sottogeneri dell'hard boiled, il pulp, quel genere di storie che andavano tanto in voga negli anni '20/'40 del secolo scorso. Nel mondo di bulli e pupe, vecchi investigatori privati perennemente attaccati alla bottiglia, con la sigaretta sempre pendente dalle labbra e il cappello a tesa larga calato sugli occhi. Ruvidi e inflessibili, dai modi spicci e sbrigativi, ma che si sciolgono di fronte al fascino felino di una bella donna.
Nick Belane, "l'investigatore privato più dritto di Los Angeles", figlio di tutti i Sam Spade e i Philip Marlowe, gli uomini "dal whisky facile" (a voler scomodare Fred Buscaglione) e la pistola sempre alla mano, (solo che le creature di Hammet e Chandler, al contrario di quella di Bukowski, si prendevano decisamente troppo troppo sul serio), è il protagonista di questo romanzo. Per cui, come è facile immaginare, si troverà a intraprendere e a risolvere casi assurdi, al limite dell'allucinatorio (soprattutto se a guidare la storia è la penna di Bukowski), tra donne fatali, alieni e  mariti infedeli. Ma la vera protagonista del romanzo è la morte, (un macabro preambolo, visto che l'autore morirà pochi mesi dopo il completamento dell'opera) che qui compare sotto forma di affascinante donna dalle forme prorompenti e straripanti, la quale chiederà al vecchio Belane ( alter ego dell'alter ego di tutte le storie di Bukowski: Henry Chinaski), di ritrovare il vecchio poeta, ormai morto, Louise-Ferdinand Céline, che, quasi come uno zombie letterario, sembra essere ancora in giro vivo e vegeto. E poi il tragico epilogo, che, considerata l'imminente morte dell'autore da lì a pochi mesi, ci dà quasi da pensare che tra Bukowki e la morte sia da sempre intercorsa un'intesa, un accordo segreto, una sorta di patto Faustiano.
"Pulp" è un affascinante riscoperta di un genere di altri tempi, dove l'ironia e la sgangherata visione di una vita portata oltre ai limiti, tipica della poetica Bukoskiana, di sicuro non mancano, ma è anche il testamento letterario di un grande autore, forse poco apprezzato dalla critica accademica, ma che di sicuro ha saputo donare speranza, e forse anche qualche sorriso, a chi una speranza e un sorriso, nella vita, non li ha mai ricevuti.

- Amedeo 'Vincent' Di Luna - 

sabato 10 marzo 2012

Il contingente


In un millennio che si è aperto ostentando dittature, genocidi, stermini e terrorismi, c’è ancora posto per la politica? Definire la politica “arte del possibile” è un modo per giustificare un operare, sempre a fin di bene, appellandosi a uno stato di necessità.
La necessità della politica è postulata come aiuto a tutte le necessità risolutive, e quindi anzitutto alla necessità della morte, che da Aristotele non cessa di essere il male ultimo e necessario degli umani, la soluzione di tutto. Così, la necessità della politica risulta la necessità stessa della morte, la necessità della fine, che si formula come necessità infinita della fine della politica, come promette ogni buon politico che si rispetti, cioè ogni antipolitico, che riempia il parlamento o le piazze, le cellule o le celle. La fine della politica in nome del politicamente corretto, ovvero della tutela dei particolarismi individuali e collettivi, è scandita dalla regressione democratica di cui parla Alain-Gérard Slama in questo numero. La regressione democratica è in nome della necessità della politica che insegue il bene comune.
La politica non necessaria è la politica senza l’idea di morte. Questa politica non ha più bisogno della paura. Armando Verdiglione dedica un capitolo alla paura. La paura cui gli umani si accodano nasce dall’idea della necessità politica della morte. Per la necessità politica della morte gli umani muoiono di paura. La necessità politica della relazione sociale comporta l’orrore, quella dell’eliminazione dell’oggetto il terrore, quella dell’espunzione dell’Altro il panico e quella della coniugabilità dell’odio lo spavento. E la politica si propone come necessaria per salvare gli umani da questi contropiedi e contrappassi che lei stessa fomenta.
Le teorie illuministiche che hanno razionalizzato le mitologie aristoteliche sembrano trionfare nel pianeta. In cambio del bene promesso per tutti, ciascuno dovrebbe delegare la libertà, la sovranità, l’indipendenza, fino a temere la speranza, l’avvenire, il sogno stesso, come scrive nel suo testo Harry Wu. Questa necessità della politica che imperversa nel pianeta s’incarna ancora nei laogai cinesi e nelle carceri cubane, come testimonia Armando Valladares. Si prefigura nell’islamismo politico, che risulta, nelle testimonianze di Hamid Sadr, Ahmed Rafat e Bat Ye’Or, un grave pericolo contro Israele e l’Occidente. È ritornata nell’oligarchia della Russia di Putin che minaccia il pianeta e elimina il dissenso. È avallata dalle burocrazie del Parlamento europeo e dal terzomondismo dell’ONU. Non si tratta di scontri di religioni o di civiltà, bensì dell’utilizzo delle massime delle religioni e delle esigenze della civiltà a fini politici, a dimostrare che la politica ha i suoi fini che giustificherebbero i mezzi, idea a torto attribuita a Machiavelli.
Questa negazione della politica che è la politica presente, rappresentata da qualcuno, ha i suoi fini, che sono il controllo e la gestione sia dell’individuo e della sua irriducibilità, sia dell’Altro e della sua ragione. Cioè la loro eliminazione, proprio perché incontrollabili e ingestibili. L’irriducibilità dell’individuo è la giustizia, e la ragione dell’Altro trae con sé il diritto. E l’intoglibilità dell’individuo e dell’Altro esigono un’altra politica, non presente, non necessaria: la politica del tempo, dell’Altro, dell’ospite. Un ospite che non aspetta partecipazione, condivisione, amore, ma una politica del taglio non spaziale, della divisione che non fraziona, dell’odio che non parteggia. Politica che si qualifica nel contingente e non nella necessità ideale, proprio perché è temporale, non relazionale e non sociale. È secondo l’occorrenza, non secondo la possibilità, per questo esige la differenza e la varietà, non l’indifferenza e la variabilità, in cui occorre che tutto cambi perché tutto resti uguale.
Il contingente in cui esiste quest’altra politica, la politica del tempo, del fare nella parola, non è aristotelico, non partecipa cioè al quadrato logico delle modalità che inscrive in una proporzione il possibile, l’impossibile, il necessario e il contingente. Il contingente in cui si staglia il tempo non entra nei contrari e nei contraddittori, procede dalla contraddizione originaria, esige la funzione di Altro che non si relativizza e non si dialetticizza, salvo essere escluso, per essere rappresentabile negli altri, nei diversi. Contingente significa che qualcosa avviene e qualcosa diviene, scrive Armando Verdiglione. Contingente: l’avvenire e il divenire sono istanze temporali, non relazionali. Contingente: non il tempo della politica ma la politica del tempo, non il tempo della città, ma la città del tempo, del fare, dell’Altro, dell’ospite, dell’odio intransitivo e inconiugabile. Senza l’apertura e senza l’ospite, la politica fa senz’Altro: di qui la sua necessità finalistica, di qui la sua intolleranza. Ma anche la sua fine, con lo sterminio che ne consegue.
Da molte parti si teme che la politica abbia abdicato alla finanza globalizzata, e effettivamente la politica del tempo è essenziale perché la finanza non spadroneggi nel pianeta. Ma non perché la politica debba opporre alla finanza l’economia, che si farebbe economia politica, il principio della ragione sufficiente, del minimo male necessario. È il contingente, non il sufficiente, a impedire che la finanza si mentalizzi, si algebrizzi, si universalizzi. Solo se la politica è intoglibile, il dispositivo finanziario conclude alla scrittura, non alla fine. E l’impresa, con il suo rischio e la sua scommessa, offre una base pragmatica imprescindibile alla politica, come indicano gli interventi al Forum internazionale La politica dell’impresa, tenutosi nella sede di Confindustria Modena (14 marzo 2008) e pubblicati in questo numero.
Il governo della finanza senza la politica del tempo è il governo ideale. Che la fine regni sulle cose, che le cose siano finite risulta indispensabile per Aristotele perché possano essere pensate, padroneggiate, governate. Un governo sulle cose, sul tempo, sulla città è un governo perfetto, un governo necropolitano. Per questo Armando Verdiglione scrive che “quello che il discorso occidentale definisce il buon governo è il governo delle Parche”.
Ma, già con Niccolò Machiavelli, la politica non mira al governo sul tempo, sull’Altro, sulla città: “di cosa nasce cosa, e il tempo la governa”. Parla di governo del tempo, non sul tempo, dunque di governo della città, non sulla città. Come il tempo cifra, come la città si rivolge alla cifra: ecco il governo che non ha bisogno della paura.


Sergio Dalla Val

giovedì 8 marzo 2012

INDIA, l'ossesione della rappresentazione.

Nel 1958 esce il lungometraggio India, opera del regista Roberto Rossellini, nato da un lungo viaggio in India che porta anche alla realizzazione, nel 1959, di L‘India vista da Rossellini, una serie di dieci documentari per la RAI trasmessi all’interno della rubrica del programma “I viaggi del telegiornale”. Ogni puntata è basata su un tema preciso: India senza miti; Bombay la porta dell’India; architettura e costumi a Bombay; Varsova; verso il sud; le lagune del Malabar; il Kerala; Hirakoud; il Pandit Nehru; gli animali in India.
L’idea da cui è partito Rossellini era quella di realizzare un affresco dell’India moderna per arginare le idee illusorie o poco precise che l‘Italia aveva su questo affollatissimo e variegato paese.
Il film India è composto da una parte documentaristica, che ci mostra le strade, i visi delle persone e le architetture, e da quattro episodi narrativi ispirati a storie raccontate al regista dagli abitanti. Il primo episodio riguarda un conduttore di elefanti, chiamato, mahut , che ci racconta la sua vita, il suo lavoro, la giornata tipica degli elefanti e che, ad un certo punto, si innamora e si sposa; il secondo blocco narra di un operaio che, dopo aver contribuito alla costruzione di una diga, abbandona, con la famiglia, i luoghi dove aveva vissuto per cercare un altro lavoro; il terzo ci mostra la vita contemplativa di un anziano che salva una tigre e per ultimo un uomo e la sua scimmietta che si ritrova da sola dopo la morte del padrone.
 Rossellini parla così di India: “Il vero titolo è India, Matri Bhumi, che vuol dire l’humus della terra. E’ un film che ho fatto veramente sperimentalmente, potrei dire. Ho cercato di mettere su pellicola ciò che pensavo in maniera forse teorica. E’ un’inchiesta il più possibile approfondita, sia pure nei limiti di un film, su un paese,  su un paese nuovo come l’India, che ha ritrovato la sua libertà, che è uscito dal colonialismo. E‘ un film che amo molto perché, come ho detto, è qui che ho cercato di fare un tentativo di rinnovamento nel campo della conoscenza, dell‘informazione: un‘informazione che non sia strettamente scientifica o statistica ma che sia anche una certa documentazione dei sentimenti e del modo di comportarsi degli uomini”. Godard, che ha amato, come tutta la Nouvelle Vague il regista italiano si è espresso  così: “India, è la creazione del mondo”, e ancora, “India è il contrario di tutto il cinema abituale: l’immagine non è altro che il completamento dell’idea che la provoca. India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé, ma perché è “lo splendore del vero“, e perché Rossellini parte dalla verità. Lui è già partito dal punto a cui gli altri arriveranno forse fra vent‘anni”.
Questo film è esattamente l’espressione di un cinema-laboratorio, è un lungo viaggio esplorativo che attraversa la sua stessa esperienza diretta per poi essere ricostruito attraverso il montaggio. Il film si apre con una serie di riprese diverse unite da un montaggio di accumulo e la voce del narratore che ci descrive la varietà culturale dell’India; proprio questo accumulo e frammentazione ci regala un’idea di complessità che ci accompagna alla narrazione corale dei quattro personaggi, e si conclude, nuovamente, con tre inquadrature di materiale di raccolta. Un montaggio che dà la sensazione di un tempo ciclico, un tempo accogliente ma anche aperto. E’ interessante anche notare come nella prima parte, per apparire il più chiaro possibile, Rossellini usi delle sottolineature nell’esprimere un’idea, in modo realmente didattico: quindi dichiara qualcosa e la sottolinea con un‘immagine, che la spiega, semplicemente. In questo modo, a mio avviso, esce completamente dall’idea di un linguaggio cinematografico poetico o artistico (nel senso di cinema d‘arte), che ha invece proprio l’obiettivo, sembrerebbe, di accostare diverse immagini/suoni/parole per ricreare sensazioni a livello emotivo, sensoriale e fisico, piuttosto che intellettuale. E proprio a questo riguardo Rossellini non ha mai voluto essere identificato come un’artista, si sentiva piuttosto un uomo di scienza e comunque molto attratto dalla conoscenza storica del mondo.
In India la narrazione è priva di effetti e gli attori sono decisamente credibili; sarebbe interessante capire e vedere come il regista si sia approcciato agli attori, anche se ciò che si può notare è che gran parte del film è visto attraverso campi lunghi e americani e pochi primi piani. Questo ci mostra, certamente, la sua riservatezza, la sua lontananza rispettosa, confermata poi nella sequenza sull’accoppiamento degli elefanti, che il regista decide di non riprendere dato che, come dice il mahut, gli elefanti sono molto timidi e non amano mostrare il proprio accoppiamento. La scelta di non-mostrare e lasciare alle parole il compito di far progredire la narrazione è una scelta coraggiosa che oggi sembra essere fuori moda (o fuori tempo?). Registi come Hitchcock e Godard, seppur diversissimi fra loro, hanno sempre mantenuto questa scelta etica nelle loro narrazioni, non mostrare il sesso e la morte, anche se i loro film ne sono pregni.
Tutte queste caratteristiche, che sono sia registiche, ma soprattutto autoriali, spiegano il motivo per cui Rossellini trovava nel mezzo televisivo un’attrazione e una speranza molto forti. Egli intuiva certo il grande potere del mezzo, che avrebbe voluto utilizzare come servizio pubblico di educazione.
L’approccio che ha infatti con la presentazione del suo viaggio in India attraverso L’India vista da Rossellini non si allontana troppo da quella che ha in India. Lui conversa: nel film con gli abitanti e nel programma col conduttore. Il suo è un vero e proprio racconto del viaggio che ha portato anche lui alla scoperta del paese. Ed è sempre la sua voce narrante l’elemento più importante: le immagini non sono portatrici assolute dei concetti che vuole passare, ma sono quasi “d’atmosfera”. All’interno delle puntate il progredire non è infatti di tipo verticale con  momenti drammaturgici forti, ma è uno sguardo a 360°, orizzontale, su ogni momento della vita degli abitanti, senza dare importanze specifiche. Non è la parola di un esperto, è la parola di un uomo comune che si è immerso nella vita vera e il linguaggio cinematografico è, anche qui, quasi arcaico, originario, grezzo, e la macchina è sempre in movimento, o con panoramiche o con carrellate su mezzi di trasporto reali.
Posto che, come dice Godard, “la televisione non è un mezzo di espressione, ma un mezzo di trasmissione” per cui quello che resta di più nella memoria e nell’esperienza dei telespettatori è il senso di questa trasmissione e non i dettagli e le finezze della regia-fotografia, trovo molto acuto da parte di Rossellini utilizzarla come un luogo dove raccontare. E allora la televisione potrebbe essere usata per raccontare fatti storici, o viaggi e quindi non avere una pretesa “moralistica” sulla società, quale a volte ho l’impressione di sentire. Potrebbe essere lo specchio di chi si appassiona realmente alle cose, di chi viaggia, di chi ha ancora voglia di raccontare delle storie in maniera completamente personale; senza privilegiare l’aspetto “favolistico”, “emozionale“, ma con un accento documentaristico. Dovrebbe uscire quanto più spesso dalla fiction. Dovrebbero essere gli autori a mettersi in gioco con l’esperienza e a usare il mezzo televisivo per sposare il dubbio. Si abbandonerebbe così la situazione da tavolata da bar, tipica dei talk-show (che si auto dichiarano “prodotti culturali”) dove la parola è affidata agli “opinionisti“, persone che rispondono più a canoni moralistici (o scelte autorali?), piuttosto che a considerazioni esperienziali. Come scrive Renato Parascandalo nell’articolo: “L’inchiesta televisiva e il suo declino”, il problema di una televisione, ma in generale del mondo dell’informazione è che si è privilegiata l’ottimizzazione dei costi. L’indagine reale, sul campo, non esiste più, mentre esiste un unico punto di vista allargato che crea una situazione di stallo e che elimina la possibilità dell’errore, quindi la possibilità di crescita culturale.

Francesca Braschi 



L'INDUISMO.

Ma allo scopo di proteggere tutta la creazione il luminoso creò attività innate divise per quelli nati dalla sua bocca, dalle sue braccia, dalle sue cosce e dai suoi piedi. Ai sacerdoti ordinò di insegnare e di studiare, di sacrificare per sé stessi e di sacrificare per conto di altri, di donare e ricevere. Al sovrano, in breve, di proteggere i sudditi, di donare, di far celebrare i sacrifici, di studiare e di rimanere distaccato dagli oggetti dei sensi. All'uomo comune di proteggere il proprio bestiame, di donare, di far celebrare sacrifici, di studiare, di commerciare, di prestare denaro e di coltivare la terra. Il Signore assegnò al servo una sola attività: servire queste (altre classi) senza risentimento.”-Manusmrti I, 87-91.  -Le Leggi di Manu-

S’agita, nella lettura,  un numero entro cui il fare e la riflessione indiana si divide in caste, stadi, e scopi, il numero quattro, che nella forma viene rappresentata attraverso il divino con i suoi arti. Dall’arto, e dall’articolazione di tale, procede la competenza, e a seconda della competenza, e non secondo competenza, la capacità umana svolge la sua innanità.  L’innanità è della frase dove il costrutto teorico non s’avvale di teoria, ma di consacrazione fatale.

Questa prima nota intorno l’india, si declina sulla metafora filosofica, piuttosto che cifrematica, entro cui il dilaogo indo-cristiano s’avvale della funzione economica, come macchina strutturante di una messa in scena del logos.  La stessa performance, platonicamente parlando, avviene, con necessità funzionale, nel dialogo euro-arabico.  Bat Ye’or inventa la parola eurabia che venne ripresa più avanti da Oriana Fallaci dove ci si interroga sulla radice dell’equivalenza: il diritto umano, la libertà di coscienza, la parità, la proprietà laicista.

Sicché, il referente s’evacua, la logica dell’interrogazione e della risposta, compete alla costruzione della logia e dell’ontologia, del pragma e della spiegazione di tale.
Questa isotropia trova i fondamenti, ma non di certo fondazione, sul codice che precede l’esecuzione, cosicché si tracci una parabola dove, l’uguaglianza è marchio della distinzione e delle proprietà. La proprietà, quella tagliata in gruppi e sotto gruppi, fino allo schiavo al servizio dello stato.

Il periodo statale, quello politico s’apre con i Veda (verità o sacra conoscenza) il sacro come il simbolico, i sacri simboli, quelli eterni quelli innati,  definisco l’uomo nella narrazione antropologica tra il 3000 e il 400 a.C. entro cui, il raccoglimento del dia-logos, si suddivide, nel periodo vedico, in Samihita (raccolta degli inni), Brahman( composizioni sacerdotali di riti) e Upanishad ( filosofia).
Tale facoltà divine competenza narrativa del senso, il quale trova misura del vero valore, o del suo opposto, il falso, per stabilire la legge divina, l’essenza dei nomi che sono strumento. Al tempo stesso, naturalmente, vi si rintraccia buon senso.

Il potere creativo della grammatica, la facoltà simbolica, o come viene tradotta dai semiologi, l’attività narrativa, trova sistema, un sistema castale, dove la conoscenza e l’osservazione qualifica la comprensione dell’altro sul processo biassiale paradigmatico e sintagmatico: l’estrema neutralità.  

Tale indifferenza trova la dinastia dei Maurya 560-200 a.C. l’età dei Sutra (sei trattati supplementari ai Veda, dove si celebrano rituali di pronuncia, metrica, etimologia, grammatica, e norme cerimoniali). Questa creatività normale ha presupposti mitici, dove ognuno s’inscrive alla mediazione artistica, alla norma funzionale, quella economia del discorso che serve al linguaggio per la conoscenza, l’ortografia in quanto ortodossia. 
La gerarchia degli elementi grammaticali, l’ortografia, trova definizione di limite entro cui, l’operazione del politico, è quella di rappresentate. Il politico è il mercante, il sacerdote politico,  fonda e spinge la funzione economica all’essenza, al buon senso, che fonda l’umanesimo.  L’umanesimo come creazionismo è creazione marginale dell’arte grafica: scrittura del carattere.  

Ecco dunque il livello del teatro, dell’opera che, stoica, distribuisce ruoli e investiture, dove la dipendenza sacrale apre il terzo periodo, la dinastia dei Gupta 200-300 a.C. dei Itihasa ( tradotto :“così invero fu”, dove si decantano poemi leggendari e popolari) poemi festivi, da cui procedono gli “ossequi” di commercianti liberi, mercanti di sogni, che fondano, o affondano, in radici, fiscali.  Le radici fiscali sono effetti macchinosi del sacro, dove ognuno è inscritto per evitare rischi insensati, secondo buon senso o senso comune, insomma di senso popolare.

Pertanto la festa popolare, la festa di stato, la festa presa nel macchinismo, accenna la sospensione, per inaugurale l’iterazione tra immagine  e corpo, tra forma e materia.
Il primato marginale trova territorio tra costituzione e istituzione, la cui grammatica discorsiva, comporta un sovvertimento radicale: il discorso dominante s’agita sulla competenza funzionale. Il modello si modifica e nel senso popolare, l'ironia. Nell’ironia la tipografia.  La scrittura del tipo, del particolare, la scrittura del servo.  

Nel quarto periodo 300-650 d.C. l’epoca  dei Purana , vengono raccontate storie ( la creazione dell’universo; la sua distruzione a la sua ricreazione, la genalogia degli Dèi; i regni, Il mondo; i sistemi solari). Quest’epoca è l’epoca dell’opera silenziosa dove, il filo e la corda della storia vibrano di pazienza.  La pazienza senza risentimento è virtù.  La virtù di grandi poeti che lasciano traccia nella storia, una traccia tipografica. Il carattere non popolare dell’induismo: hindū, del fiume della vita, il fiume indo, trova grado e forma sempre in divenire nella sua istanza. Il servo si mette alla prova, e messa alla prova è la parola: il viaggio intellettuale.  La fede e la speranza trovano decisione con l’esperienza di parola, di etica, segnatamente nell’esercizio del silenzio ch'è difficile, ed occorre la difficoltà, l’errore, a riguardare la riflessione. La riflessione è la meditazione come circostanza fortuita: il paradosso. 
La circostanza fortuita del silenzio è in-tematizzabile. Essa ha sembianza solo per sembiante e attraverso l’inconciliabile, i Veda della conoscenza, sono proposizione.  

La voce, la parola, i toni, , sono tracce sensibili di una costituzione,  altra cosa è il grado zero, lo stato del silenzio, quello che vacilla e trema , quello che non è dato a nessuno attraversare. L’astrazione dell’ascolto: la silente vertigine.
L’ascolto come lacerazione del grido interiore che invoca la parola, né il discorso, né il dialogo, rivelatrice.  Lo stato non può essere rappresentato, per gli “hindū” è inteso come la folgorazione di Dio, un colore sacro. In certuni luoghi, dal sanscrito, il cielo è detto svarga, dove le divinità restano accessibili a chi segue il rito, ma esiste la parola kha a indicare insieme cielo e caverna, spazio e cavità: mentre akasa è lo spazio illimitato, in cui nessuno abita, tranne il distacco.

La poesia che tende al silenzio come propria condizione non può prescindere dalla voce, e la pronuncia diventa la verifica storica, vivente, della parola.

Il vibrato, tradotto dal latino con folgorare, dell’armonia tra i partiti e le religioni, strazia l’atto del silenzio. Ecco che chi rappresenta il silenzio, si trova spaesato perché infinito.

Silenzio in poesia non indica e non significa il punto ma il disappunto più contenuto della parola, il vertice di una condizione in cui l’ascolto risulta massimamente acuito. 
La pagina bianca di Mallarmé divine segno di una scrittura assente, entro cui l’atto è secondo.  Questa l’economia infinita della scrittura della parola, la cui piega poetica è tipografica, è qualità materiale, in materia d'intelletto.

Mildo de Angelis scrive: "il silenzio è invece l’assenza tra due note, il nulla fra due assenze, la rottura del ritmo, il corpo".  Per corpo e ritmo s’intende l’atomo che compone lo spazio e che ricerca sempre attraverso la modulazione, il modo. Il modo silenzioso, paziente, astratto.

Per abduzione da tale questione concludiamo con una poesia di Maria Luisa Vezzali:

Se il silenzio è il sonno
in cui noi strettissimi
sogniamo il sogno bianco
calmo, in attesa, senza
tregua, del predatore/
bocca intatta infinita
di sprofondante scala
a chiocciola dell’orecchio
verso luoghi interiori
unisoni col tacet degli dei
nel fondo della neve,
nel fondo della notte.

Francis

domenica 4 marzo 2012






Ringraziare voglio il divino
labirinto delle cause e degli effetti
per la diversità delle creature
che compongono questo universo singolare,

per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,
per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità,

per il saldo diamante e l’acqua sciolta
per l’algebra, palazzo di precisi cristalli,
per le mistiche monete di Angelus Silesius,
per Schopenhauer,
che forse decifrò l’universo,
per lo splendore del fuoco
che nessun essere umano può guardare
senza uno stupore antico


per il mogano, il sandalo e il cedro,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede,
per certe vigilie e giorni del 1955,

per i duri mandriani che nella pianura
aizzano le bestie e l’alba,
per il mattino a Montevideo,
per l’arte dell’amicizia,
per l’ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all’altra,
per quel sogno dell’Islam che abbracciò
mille notti e una notte,

per quell’altro sogno dell’inferno,
della torre del fuoco che purifica,
e delle sfere gloriose,
per Swedenborg,
che conversava con gli angeli per le strade di Londra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in me,

per la lingua che secoli fa parlai nella Northumbria,
per la spada e l’arpa dei sassoni,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo,
per la musica verbale d’Inghilterra,
per la musica verbale della Germania,
per l’oro che sfolgora nei versi,
per l’epico inverno
per il nome di un libro che non ho letto,

per Verlaine, innocente come gli uccelli,
per il prisma di cristallo e il peso d’ottone,
per le strisce della tigre,
per le alte torri di San Francisco e di Manhattan,
per il mattino nel Texas,
per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale,
e il cui nome, come preferiva, ignoriamo,
per Seneca e Lucano, di Cordova,
che prima dello spagnolo
scrissero tutta la letteratura spagnola,
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,
per l’odore medicinale degli eucalipti,
per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
per l’oblio, che annulla o modifica i passati,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio,

per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,

per la patria, sentita nei gelsomini
o in una vecchia spada,
per Whitman e Francesco d’Assisi che scrissero già
questa poesia,

per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all’ultimo verso
e cambia secondo gli uomini,

per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
quei due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per questa musica, misteriosa forma del tempo.

Jorge Luis Borges.

sabato 3 marzo 2012

Tutto imparammo dell'amore 
Alfabeto, parole.
Il capitolo, il libro possente 
Poi la rivelazione terminò.
Ma negli occhi dell'altro
Ciascuno contemplava l'ignoranza
Divina, ancora più che nell'infanzia:
L'uno all'altro, fanciulli.

Tentammo di spiegare
Quanto era per entrambi incomprensibile.
Ahi, com'è vasta la saggezza
E molteplice il vero! Emily Dickinson