martedì 28 febbraio 2012

Come Leggere.

Come leggere? C'è in portoghese una parola bellissima, che significa anche esperienza vissuta, ma che, a differenza dell'italiano, evita il participio passato e tende al gerundio: vivência. Rispetto al viaggio della vita, il come è un gerundio. Come leggere? Leggendo. Come scrivere? Scrivendo. Leggere non per interpretare, per capire; ma ascoltare, intendere, quindi leggere. Non si legge ciò che si vede, ma ciò che si ode e s'intende. -La dissidenza-

sabato 25 febbraio 2012

L’ISLAMISMO.

L’Islam è il luogo dove la scenografia funziona.  Esso è il luogo altro, il luogo del figlio, non già quello dell’etica e della legge, ma il luogo dell’astuzia della parola. Il luogo dell’anima.
Il luogo della scenografia è il luogo della scrittura della scena, la scrittura della parola che trova cittadinanza e terra nella sua impresa intellettuale.

L’impresa intellettuale è il diritto delle donne. La questione donne come diversità e indice dall’anonimato.  Il discorso religioso, il discorso biblico, è il discorso dell’uguaglianza misurata. Quella tagliata su misura della donna che, come soggetto ideale veste la divisa, se non la divisione mortale, quella di Aristotele, secondo cui ogni uomo è mortale.  

Per estensione nel discorso occidentale, ogni donna è mortale, come nel mito delle tre Parche, quelle streghe che tramano sul filo della vita, la morte.  E allora la morte si fa soggetto, si fa donna in divisa, la quale deve essere umanizzata e arruolata, sotto il controllo del Padre, perché il male.

Le donne sono il male, il peccato, l’incesto, questo il discorso dell’Islam, non di certo la parola Islamica,  dove il testo, l’analisi sul testo, la lettura trova elementi nel proprio idioma.
Lo specifico, il particolare, architettura la legge secondo il proprio idioma, edificando il proprio monoteismo. Il monoteismo dell’islam è il monoteismo dell’anima, quello della parola dove le donne e gli uomini non sono mortali.

Le donne sono nella parola e divengo dispositivo intellettuale, senza bisogno di delega o nomina del padre, nel Nome-del-Padre.

La morfologia è ancora morfologia del padre, entro cui la paura s’assoggetta, si anima e s’animalizza; nutrendosi, essa si nutre dell’altro elevandosi uni-versalmente, fino a divorarsi da sola.  La paura si fa mimetica e gira in tondo nominandosi Reale.

La paura imperiale, la paura Regale, è paura del diritto privato.

Il diritto è il luogo dove il nome funziona. È il luogo dell’innominabile e dell’anonimo, che non si lascia divorare dal conformismo anima-le.  
La donna come animale fantastico, rappresentazione dell’Altro, buono o cattivo, vittima o carnefice, riempie i copioni di ogni commedia, quando non sfocia in tragedia.

La politica dell’islam è la sua cartografia impossibile, altrimenti la carta d’identità di Platone: “dimmi cosa pensi e ti dirò chi sei”.  

Impossibile già dire Isacco chi è, impossibile già dire Abramo chi è, ugualmente con Giacobbe che, s’accorda con la parola e la voce dei fratelli. La politica di Giacobbe è tonale, è un accento linguistico.

In Islam dimorano i toni dell’anima, i toni delle donne, entro cui diritto, storia e geografia s’accordano, attraverso la narrazione, con Dio, il Nome e la Legge, -l’Ebraismo-; e il Figlio, l’Etica, il Fare, -il Cristianesimo-; e nella logica diadica e triadica, la dissidenza, l’errore, l’erranza, l’errante, il capitale della vita trova piacere.

La religione è un impegno, la rivoluzione è della parola.  La politica è un compromesso, altra cosa è la politica della parola.
La tragedia, la non-identità, per dirlo con Giampaolo lai, esige l’inconciliabile, tra ciò ch’è identico e ciò ch’è non identico, l’anomalia.

La catacresi, la politica dello squarcio, non si misura sul taglio, sulla tagliata grigliata e affettata come la repubblica, ma s’apre alla dimensione diplomatica.  La dimensione delle donne Islamiche, segretarie di legazioni, note amministrative, favole, racconti e narrazioni. Amministratici d'appunti, lettere, battute, aneddoti e romanzi, il cui capitale della vita trova il Nobel per la Pace.

Francis.

giovedì 23 febbraio 2012


" [...] La questione, nel congresso Sessualità e politica, ha trovato ancora di più il modo di precisarsi. Ma, intanto, già sessualità è in un’accezione differente da quella di Freud, perché c’è qualcosa che oscilla in Freud fra il naturalismo e ciò che naturalismo non è. Leggendo tra le righe Freud e restituendo il suo testo, noi possiamo dire che il significante sessualità, che egli ha coniato, può essere colto in un’accezione non naturalistica. Però ci sono anche le premesse, nel suo discorso, dello sperimentalismo e del naturalismo, anche se più di una volta egli dichiara di non fare sperimentalismo. Sopra tutto, il suo intervento è nettissimo per quanto riguarda la psicoterapia: la sua non è psicoterapia, quindi non rientra nella cura del dualismo psicofisico, non è la cura dell’unità corpo-psiche, sul modello ontologico. La sessualità è intellettuale, incomincia a emergere con Freud, quindi anche con Lacan. Nel discorso di Lacan, essa scivola verso quello che egli chiama il reale.
Ecco la questione: la sessualità non è reale, la politica non è reale, ovvero la sessualità, la politica, non appartiene al registro dell’impossibile, al labirinto, al registro della legge della parola e al registro dell’etica della parola. La sessualità sta nell’intervallo tra questi due registri: sta dove le cose si raccontano e si fanno; segnatamente dove si fanno. E non si fanno, se non si raccontano. Il racconto è sogno e dimenticanza. Questo implica che una funzione, esclusa dal discorso occidentale, la funzione di Altro, è essenziale per la sessualità, per il racconto, per il fare, per la poesia. Cogliere la funzione di Altro come essenziale per la politica è una cosa che chiamare rivoluzionaria è un eufemismo, perché la politica con l’ontologia sorge espungendo l’Altro, rappresentandolo, personificandolo. Il principio del due non è il principio dell’unità, quindi di non contraddizione, d’identità, del terzo escluso, principio di circolarità. La logica predicativa esclude la politica intellettuale, la politica pragmatica, la politica irreale.
La sessualità è questo. La sessualità è politica: politica dell’ospite, politica dell’Altro. Non può essere determinata dal criterio dell’armonia sociale, della proporzione sociale, della simmetria sociale, della relazione sociale, da nessuna genealogia, da nessuna appartenenza a un gruppo, a una casta [...] " -La politica dell'ascolto-

IL CRISTIANESIMO.

“Gesù, crocefisso, morì e fu sepolto, poi resuscitato aprì le porte del paradiso in remissione dei peccati”.
Il cristianesimo guarda Gesù cristo come dio fatto Uomo. Quindi ancora prima che il Figlio si faccia uomo, viene posto in origine lo statuto dell’uomo, il quale segue nel suo atto, nell’Esodo, una sua etica.

L’uomo Mosè è sembiante, è oggetto di parola che guida il popolo alla liberazione.
L’uomo Gesù è il tempo e afferma, secondo l’occorrenza, che non c’è da aspettare per operare.

La sua opera trova cittadinanza nella sua parola, il suo atto. La sua impresa.

Il cristiano ha l’obbligo di edificare il suo monoteismo stretto, per dirlo con Freud, perché non c’è più tempo da perdere, il suo incedere è il suo Pentateuco personale.

L’opportunità qui trova la remissione dei peccati dove, annotando una lettura giudeo-romana, quindi tra l’ebraismo e il cattolicesimo, si segna l’accordo sui primi tre comandamenti: la santificazione del Nome.

Il principio di vita, il principio di parola, il principio di Verbo. Tolta la causa, tolto il Nome è tolta la provocazione della parola con i suoi effetti che, circolando, l’itinerario di vita, diviene itinerario canonico.

La canonizzazione è amore per l’ortodossia, quella di Lutero, che accusa il cattolicesimo di eresia, selezionando così chi è dentro e è chi fuori dalla sua chiesa. Il principio di terzo escluso, nato in Grecia con Aristotele.

Per lo stesso principio il luogo comune si veste nell’immagine laicista e ateista, che non intendendo per nulla la questione intorno il nome di Dio, si condanna a essere la sostanza di una nova comunità/civiltà, di un insieme entro cui, l’uni-verso, si rinchiude su una sola versione dei fatti.

Per questa “nuova”canonizzazione, la scienza della parola è esclusa, mentre l’epistemologia si limita sulla tecnica discorsiva, quella dove tutto è politicamente corretto.  

Questo è il fantasma del monoteismo epistemico, dove la caccia agli ebrei trova la sua giustificazione.

La giustificazione afferma ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, ciò che è pieno e ciò che è vuoto, per riempirsi di nulla fino alla morte. Si tratta quindi di leggere il fantasma di presunzione entro cui, la teoria, rimane implicita al soggetto.

L’occorrenza è sempre seconda, perché quadratura del cerchio naturale. Essa è rinascimento, che teorizza quel che dell’esperienza si scrive: il nutrimento intellettuale.
La rinascita di Cristo quindi deve essere letta come apertura, non su una vita dopo la morte che, il cristianesimo attende da mille anni con il messia, ma come fede che restituisce per astrazione un’ipotesi pragmatica, etica.

L’identità e l’integrazione sono due monoteismi, il regno di Dio: la voce; e il regno del Figlio, la parola, entrambi e ciascuno nella sua funzione, dall’inconciliabile, trovano l’apertura intellettuale.  La piega e la scrittura.

Così nel rischio e nell’azzardo i due fratelli, Ebraismo e Cristianesimo partecipano alla costruzione della civiltà, entro cui il terzo l’Islamismo non è escluso.

Questa è la nostra impresa intellettuale: la questione ebraica che introduce Dio, il Nome e la Legge; la questione Cristiana che introduce il Figlio, l’Etica, il Fare; e la questione Islamica, ch’è Islamica e altra cosa dalla questione Ebraica e dalla questione Cristiana, l’altro figlio. A queste tre s’opera un più zero, la questione indiana: la silente traccia.  

Francis

mercoledì 22 febbraio 2012

L’EBRAISMO.

“L’ebreo è un libro” , l’ebreo non ama l’immagine, non ama il Nome e nemmeno lo rappresenta, egli è libro, egli è parola che, Dio ha donato lui, nella funzione libera.
Per l’ebreo scrivere, è scrivere nell’istante in cui Dio si ritira dalla parola, è atto di rivoluzione come tentativo suicida di rappresentare la parola. Il Nome.

 In ebraico le lettere sono numeri per esempio aleph è l’uno che, nel momento in cui si vede, si vede yod, il quale si sposta di posizione, un po’ qui e un po’ là, e infine il vav che è l’uno ma anche il tre.  Yod corrisponde al dieci, Yod è ancora dieci e Vav è il sei, la composizione è che Aleph è 1- è 3, è il 26. Il ventisei è il Nome di Dio, il tetragramma, il Nome.  Dunque Dio non ha nome pertanto non ha dogma.

La Bibbia ebraica s’apre con un bet il due, la b come Breshit, il cominciamento anteriore, e “finisce” con un lamed il trenta, considerata la più grande delle lettere. Dunque componendo 3 e 2, 32, lamed bet, si traccia il cominciamento del cuore, il battito del cuor, il viaggio del cuore.
Un ultima nota intorno al testo ebraico è di Sefer Jetzira, che scrive: “Dio creò, con che, con che cosa?- con il, sfà, saffer, seppur” esse sono la stessa parola Sfà significa cifra, numero, Seffer è il libro come spazio, Seppur è il racconto, il vocabolo. Dio creò il mondo con questa parola, il viaggio nella parola, dove ciascuno ha la sua propria lettera, ciascuno è una lettera particolare.

Ma la nostra ricerca ci porta “all’origine” della questione ebraica che, risalente a Mosè, questa religione si distingue, attraversando la lettura di Freud, da quella Egizia.
La prima, quella ebraica, afferma un Dio unico e onnipotente il cui nome è impronunciabile e impossibile da mostrare. Una fede in tale assolutezza, erige un Monteismo e naufraga sull’immortalità: di una vita oltre la morte.
Per contro la religione egizia erige un Politeismo, le cui note si rintracciano ancora oggi nelle diverse rappresentazioni greche di statue e templi, Dèi-Uomini/Dèi-Animali; il Dio Sole o gli Dei delle costellazioni, ma affonda sulle funzioni di tali Totem cui le differenze risultano minime.

Nella lettura del Mosè di Freud s’annota, da una parte un Mosè che condanna, censura la magia e la stregoneria, e dall’altra un Mosé che eccede, abbondando di arti occulte e incantesimi.

Tali incantesimi danno così forma e dominio a Osiride, dio dei morti, incontrastato signore degli egizi, testimone della circoncisione che, come fossile guida, per dirlo con Freud, è segno di una consacrazione divina.
Questa consacrazione divina, cui i sacerdoti Madian fanno riferimento, inscriveva limitazioni nell’uso del nome di Dio, nel rito giudaico, affermando un nuovo tabù.
Al posto di Yahweh, il dio vulcano, si doveva dire Adonay.  L’assonanza tra il nome egizio Atòn, (nome arcaico per il dio del sole) e la parola ebraica per Adonay (mio signore), e il nome siriaco Adon, apre le porte a una comunanza tra lingua e significato entro cui l’ipotesi ebraica  menziona Adonay come l’unico Dio del popolo d’Israele.

Il privilegio di tale atto-segno e tabù, trova orgoglio e nobiltà che, Mosè, pronunciò come Popolo Santo.  Questa espressione si ritraccia nel testo biblico, il quale non manca di contraddizioni causate da una modificazione, nota come Codice sacerdotale, entro cui l’opera subì una vera rielaborazione da parte di Esdra e Neemia.

Ciò che s’agita è la deformazione che, nel suo doppio senso, è testimone circospetta della forma e del luogo, in cui si nascondono elementi ripudiati, rifiutati, mimitizzati dal contesto.
La lettura intorno al fossile guida, riguarda l’innovazione dell’uomo sulla natura.  L’operazione è cambiamento della natura, del corpo che non è perfetto, la quale avviene l’ottavo giorno, a una settimana dalla nascita del figlio, il cui insegnamento è quello di vivere sempre a livello dell’otto, dell’infinito, dove la torah è solamente personale.

Francis

P.S in riferimento alla "[La danza della realtà, Alejandro Jodorowsky]"

L'io (e)' l'altro, l'io h(o) l'altro?

Un articolo di giornale dal titolo "La russia deve ricostruire il suo esercito" mi chiama alla mente alcune questioni, la necessità degli strumenti di guerra, una guerra nucleare che prima significata come possibile fine dell'umanità viene ora riproposta come fine della civiltà. Dall'annichilimento dell'uomo, alla distruzione dell'ordine precostituito, di quello che concerne al cittadino, la città e le mura che la circondano.
Quanto più sentito nella nostra generazione è la perdita dei confini, resi eterei dalla telematizzaizione della comunicazione, dalla perdita di centralità della città non più locale ma globale a questo fa da cornice lo smarrimento di una identità collettiva che più che favorire il mito della identità personale, dell'individualizzazione è andato nella direzione della identità diffusa, priva di confini interni ed esterni, priva di una continuità del sé e dei moltiplici sé e dell'altro e dei molteplici altro.
La questione si gioca sempre di più sulla relazione con l'alterità; leggevo del passaggio dal fantasma dell'inclusione nel partito, dal rischio dell'andare contro l'ordine precostituito, contro il bispensiero del Grande Fratello, all'ossessione moderna di rimanere all'interno del partito, all'interno della Casa del Grande Fratello per non rimanere fuori, nell'ignoto, nel territorio dell'altro.
Una cultura fissata sull'immagine del sé, una cultura di deriva narcisistica, dove la relazione con l'alterità non può più essere giocata sull'essere oltre all'altro, sulla propria questione individuale oltre al Nome-del-Padre, ma che si gioca sul possesso dell'altro nel tentativo di controllare ogni diversità, riconducendola al Sé o distruggendola, perchè del Sé e dei suoi limiti, ultimo la morte, non possono esserne accettati i confini.

domenica 19 febbraio 2012

La danza della realtà.

"In quel clima torrido la sessualità era precoce. A fianco del nostro negozio si ergeva la caserma dei vigili del fuoco. Nel grande cortile, spenzolanti da un alto muro come le corde di un'arpa gigantesca, si allungavano le funi che servivano a reggere le maniche, lavate e distese ad asciugare dopo gli incendi. I figli del custode più i loro amici, una banda di otto ragazzini, mi avevano invitato ad arrampicarmi insieme a loro lungo venti metri di corda. Una volta in cima, al riparo degli sguardi degli adulti, seduti in circolo iniziarono a masturbarsi, sebbene l'emissione dello sperma fosse ancora una cosa leggendaria per loro. Con la mia ansia di comunicare, li avevo imitati. I loro falli infantili, con il prepuzio sigillato, si erigevano come ogive brune. Il mio pallido, mostrava apertamente l'ampia testa. Tutti notarono la differenza e si misero a ridere a crepapelle. "Ha un fungo!" Umiliato, rosso di vergogna, mi lasciai scivolare lungo la fune scorticandomi il palmo delle mani. La notizia si diffuse in tutta la scuola. Io ero un bambino anormale, avevo una “pichula” diversa. "Gliene manca un pezzo, non ha la punta!" La consapevolezza della mutilazione mi fece sentire ancora più distaccato dagli altri esseri umani Non appartenevo a quel mondo. Non avevo nessun posto dove stare. Meritavo soltanto di essere divorato dal silenzio." [La danza della realtà, Alejandro Jodorowsky]

Lettura in associazione a: -i- senza nome

sabato 18 febbraio 2012

La parola incontenibile.

Macchiavelli pittore, Macchiavelli disegnatore, Macchiavelli scrittore. Ecco la Torah che lui ci lascia. Ecco l’immortalità del corpo.
Macchiavelli è scrittore della parola. Leggere Nicolò Macchiavelli è leggere la politica del tempo e non il tempo politico.
Il tempo politico è il tempo della morte dove, l’interrogazione trova già risposta, non lasciando tempo altro per riflettere.

Esso è il tempo del commensale, quello del discorso umanitario dove, l’idea di ben-essere subisce i colpi della pasticca, il cui contraccolpo, è un colpo al cuore.
Colpo tradotto è farmaco entro cui, la farmacologia di Platone, circola nel banchetto allestito per economizzare l’alimento.
Il banchetto ha fondamento sulla fine del tempo, quale cena ultima più che ultima cena, dove qualsiasi chance è buona per una nuova distribuzione di organi.

Il banchetto cannibalico è quello dell’uomo comune, quello che circola e che fa cerchio apparecchiando se stesso sulla tavola rotonda.  È la figura dell’uroboro, il serpente tentatore : rm letto arum tradotto come nudo o astuto. 
Ma il vero inganno è credere che Dio/Macchiavelli conosca ciò ch’è giusto o sbagliato, e che, mangiando il corpo/mela, il supposto frutto della conoscenza, si divenga Come Dio.

“Allora si aprirono gli occhi di Adamo ed Eva e tutti e due s’accorsero d’essere nudi”  nudi come il serpente che li ha fatti abboccare, con la sua astuzia, e vergognare d’Essere come lui.

Ognuno è l’uomo del sistema, capace, con i suoi discorsi, di sistemare, instituire con ragione, la dicotomia, il due tagliato in due.  E allora l’uomo cannibale si trova a indossare la divisione, l’algebra, perché tagliato nel suo campo.
Così l’uomo s’accomoda sul cadavere eccellente, sul corpo acquisito, vestendo il nome del padre nel Nome del Padre  Il business cannibalico si sistema sul cadavere del padre, sul suo impero standardizzando, così, l’impresa intellettuale,  s’appiattisce sulla scrittura.

La storia standardizzata è quella che si riferisce all’epoca dei padri e delle madri, entro cui la nevrotizzazione e la psicotizzatione tornano, più forti, in ciascuna nostra impresa.
Contro la normalizzazione, il luogocomunismo, il senso comune, contro il partito dello psicofarmaco che tutto deve comprendere, prendere, gestire ed elargire in piccole o grandi dosi. Contro l’ideologia che, già da Aristotele, ha tentato di cancellare, escludere, delimitare la parola stessa. La parola irrompe più forte perché, incontenibile, imprendibile, incalcolabile con il cristianesimo prima, con il rinascimento poi. Essa irrompe con la scienza, con l’arte, con la politica, quella di Macchiavelli, dove il tempo dimora nell’intervallo della storia fra il sentiero della legge e il sentiero dell’etica.

Max Planck afferma: Una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori, e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono, e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa. L’ironia non è banale perché gli oppositori cui si riferisce sono quelli indottrinati nella loro stessa professione e che come scrisse Freud (scrivo a memoria) è bene che gli scienziati/poliitici si occupino dei sistemi dell’universo, ma è bene anche che non dimentichino il segno, il particolare, l’impressione profonda, il modo di guardare l’universo, per un’ipotesi sempre nuova d’approccio a tale.

La psicanalisi s’occupa di questo, questa scienza nuova s’impara anzitutto su se stessi mediante lo studio della propria personalità, del proprio particolare, degli effetti /affetti, delle pulsioni del corpo.

La spazializzazione del corpo implica l’occupazione di un luogo, la mentalizzazione del corpo la sua abitabilità. Cartesio sostiene la possibilità di creare un corpo senza cervello, quindi senza anima, senza affetto per dirlo con Freud, funzionale solamente al ricambio degli organi, in una nuova organizzazione economica. Egli propone un’altra distribuzione di organi per i sui commensali. La res extensa e la res cogitans  di Cartesio sono entrambe sostanze, ma di natura diversa e separata: il corpo è concepito come una macchina che si muove da sé, in modo automatico.

Il corpo così proposto viene spazializzato e temporalizzato, mantenendo l’idea di una sua presenza come apertura al mondo dell’esperienza, con l’unico risultato di riporre la cosiddetta corporeità sulla carnalità fisica negando propriamente il Gesto di Cristo.
Ma Freud s’inventa la pulsione, la quale si colloca tra lo psichico e il somatico e la psicanalisi s’incomincia a precisare come qualità della parola, che sul taglio della scena di Cristo, introduce la funzione.

Jacques Lacan quindi apre la questione sulla scena con la sua topologia, la scena del Padre e la scena del Figlio entro cui s’instaura il reale che in latino si traduce con verus “vero” e solidus “denso, intero, completo”. Quindi sarebbe il reale supposto all’Immaginario, il particolare del corpo. Ma Lacan complica ulteriormente la questione affermando che il reale s’approccia all’identità a sé. Egli utilizza una perifrasi: “È ben reale, res ita se habet (“la cosa sta così”)”. La realtà, la cosa stessa, è l’identità a sè medesima che può garantirsi solo dalla differenza rispetto agli altri.

La parola dunque è altra cosa: la stessa cosa, ch’esige autismo e il sembiante, e la cosa stessa, ch’esige l’automatismo e il tempo , tra l’uno e l’altra la cosa differente e varia, l’intendimento , la cosa intellettuale, la qualità!


"Questi tempi richieggono deliberazioni audaci, inusitate et strane. Et, quanto alla neutralità, il quale partito mi sembra di sentire approvare da molti, a me non può piacere, perché io non ho memoria, né in quelle cose che ho veduto, né in quelle che ho lette, che fosse mai buono, anzi è sempre suto pernitiosissimo, perché si perde al certo"

Ecco il Macchiavelli scrittore di qualità. Scrittore politico.

Francis

venerdì 17 febbraio 2012

L'industria intellettuale.

[...]Scrive Machiavelli: “E perché sono di tre generazioni cervelli”: poi è chiaro che si sofferma su una, quella che a noi interessa, ed è il cervello che capisce, discerne, ragiona e intende. L’imprenditore capisce, discerne, ragiona e intende. Tra il ragionare e l’intendere, l’ascolto: le cose si ascoltano e s’intendono, se il tempo non finisce. Se è l’idea di fine a instaurarsi, allora l’ascolto non può entrare in gioco. Senza l’idea di fine, senza l’idea di fine del tempo, senza la verità come causa finale. Machiavelli dice che la verità è effettuale, non rientra nella causa finale, non è qualcosa da inseguire e da porre su una bandiera; è la verità effettuale. Effetto di che cosa? Della qualità. Della cifra. Qualità lontana da quella ontologica, qualità della vita, qualità della parola. Cifra della poesia. Cifra dell’impresa. Cifra della città. Cifra del viaggio. La città è in viaggio, l’impresa è in viaggio. [...] - Il secondo rinascimento-

giovedì 16 febbraio 2012

Lo scritto e la verità.

“È con la parola, certo che si traccia la strada verso lo scritto” Jacques Lacan interviene così nel libro XVIII del capitolo “Lo scritto e la verità”. Einaudi edizione.
La questione qui lanciata fonda le radici in una rilettura del discorso lacaniano entro cui, la posizione dell’analista, non si fonda sul discorso: la chiacchiera politica appartenente a chissà quale partito o religione, ma piuttosto è quella della politica della parola che nel suo atto traccia la sua etica.

Lo scritto si differenzia dalla parola. Lo scritto, preso in se stesso, pretende il commento dell’altro senza intesa linguistica. Senza tensione d’accordo.
L’indiscrezione nel commento trova ragion sufficiente nella sua posizione vertiginosa,
ma la questione è sempre lungo il filo dell’esperienza, dove l’analista è sempre supposto sapere quello che fa aprendo così ciascuna chance al malinteso. Il supposto è la Cosa per Lacan.

Sigmund Freud scrive “ alla rappresentazione della parola si connette la rappresentazione dell’oggetto contenente le associazioni oggettuali”.  Perciò l'oggetto ha la sembianza di una cosa, dotata di impressioni sensorie provenienti dall’oggetto.
L’oggetto quindi è sembiante di qualcosa la quale sembianza si veste di forma.
Le rappresentazioni non riguardano l’immagine, non riguardano l’immagine di Dio,  esse sono anzitutto rappresentazioni di oggetto/di cosa e rappresentazioni di parola dove vi si accorda la sembianza e il sembiante nell’attimo della funzione.

L’attimo non si distende lungo linea del tempo, quindi non è potenziale, non può essere elevato a potenza, ma esso è un atomo indivisibile, è l’istante nella sua funzione infinita.
L’istante è un segno ma, occorre non dimenticare la parola perché senza tale parola l’analisi s’inceppa sospendendosi.

La parola è il vaso da cui escono i doni del linguaggio.
Jacques Lacan fa riferimento al vaso di Pandora scrivendo: “l’importante è che paroliate!”

La questione ebraica s’accorda sulla lettura psicanalitica occidentale, entro i toni dell’ordinale: c’è un ordine nelle cose ma non un ordine ordinale, non c’è gerarchia perché ciascuna cosa, s’associa, si coglie accanto alle altre facendole così risultare assolute alla composizione del quadro.  La lettura coglie l’invisibile muovendo lo sguardo l’ascolto, l’emozione.
La verità dunque si rintraccia nella libera associazione, perché non c’è nulla di più libero delle variabili matematiche dove, tra un matema e l’altro si denota l’istanza del ritmo: l’aritmetica.

La lettura è sinestetica, la parola è sinestetica; la sinestetica è sensibilità sonora.
Con Armando Verdiglione la sensibilità sonora diviene tonale. I toni s’accordano sul filo e la corda del linguaggio entro cui l’universo s’estende nell’attimo atomico.
Quindi non c’è più relativismo ipotizzato da Einstein, perché l’attimo trova la sua funzione, e il tempo non corre più sulla percezione, quindi dal nervo acustico al nervo ottico, ma esso diviene nella nota, nel punto, nel tratto, nella linea, l’accento che compone la parola, il periodo, la frase, l’etica.

Leggere la parola ebraica è leggere l’avveniere, il divenire anteriore, alla radice.
La radice, Kedem, è origine, è parola originaria dove, come l’ebreo dice, l’uomo deve avere i piedi nel progresso e la testa nell’origine.
Il tempo ebraico non è lineare; l'ebreo vive sopra la natura e considera il tempo un’altro tempo. Per lui esso è l’Altro.
Il Talmud insegna che la genetica del tempo è domanda, dove tutto è paradosso e moltitudine di domande, di voci, di saggi, d’interpretazioni senza fine, di Scritti.
Ecco la nostra impresa intellettuale, la lettura, intorno agli Scritti,  de Monsieur  Jacques Lacan, e intorno i vasi che, nella Cabala, risultano rotti perché l’assenza della parola diverrebbe insopportabile poiché la luce ci renderebbe tutti cechi.

Per concludere il grafo è forma scritta, è segno che, all’incrocio con l’analista, per dirlo con Lacan, rintraccia l’origine, la lettera, l’alfabeto, l’atomo, la molecola che trova modulazione tonica nella scrittura dell’esperienza.  

Francis

mercoledì 15 febbraio 2012

Una piega ebraica nel testo di Giampaolo Lai.

Leggere Giampaolo Lai (1999) è leggere il libro, è leggere la lettera, è leggere l’ in-linearità del tempo.  Leggere è leggerlo alla cifra, con l’esperienza religiosa.
-La terra , il fango, il mare-  sono accenti che s’accordano con il Genesi e con la topologia rappresentata da Lacan. La lettura s’accosta alla Genesi ebraica: Breshit tradotto come l’inizio, il cominciamento anteriore.  L’inizio per l’ebreo è in-lineare, mentre per il greco l’inizio circola. Il tempo è un cerchio chiuso come scrive Platone nel Timeo. 

G. Lai riferisce la questione della terra dove vi si rintracciano le questioni intorno la diversità e la divisione.  “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita” in ebraico Adam è terrestre, Adamah è terra. La polvere di terra. Quindi intanto la polvere.

La mia lettura intorno la questione è originaria, è una lettura non specialistica.
L’incontro è tra la dimensione del deserto e la polvere.
“Migba” in ebraico non è il vuoto del deserto come la lettura italiana propone, esso è la “parola”. Il deserto parla, la sabbia parla.
La sabbia è originaria della parola, del cibo che, come la Bibbia vuole insegnare all’uomo è alimento, vita. L’infinito, l’otto.

L’uomo è artefice della sua vita, la sua volontà si trova sempre sul livello della costruzione permanente di tale. Artista delle sue regole, delle sue parole, egli le ricerca perché sono fondazione di una Torah personale che risalgono all’origine: il libro fondatore.

Lo sguardo e lo specchio sono questioni importanti per leggere Giampaolo Lai con l’ebraismo.
Per l’ebreo il mondo non si fonda né ha fondamento nell’immagine, nell’imago di Lacan, ma piuttosto, per mezzo della costruzione e della modulazione, esso s’incontra con l’infinito.
La tensione compiuto-incompiuto, il continuo movimento, viene letto nel testo Biblico de –Il cantico dei cantici- dove un ragazzo e una ragazza non trovano mai l’incontro perché nel istante in cui lui la raggiunge, lei fugge.

L’inconciliabile trova la posizione impossibile di Dio, dell’infinito, dell’uomo, dove la funzione della ricerca di se stesso, procede da se stesso.
La ricerca verso se stessi è la ricerca della terra, dello spazio, dell’infinito che si elabora davanti o dietro noi stessi nella parola originaria.

Una volta però approdati sulle nostre terre della ricchezza inaudita, senza abiti e senza nome, gli stranieri venuti dal fango e dal mare, diventano lo specchio allucinato dell’anima”
Lo specchio allucinato dell’anima è la posizione impossibile dell’infinito, la posizione del padre.

Nel Genesi, Breschit, l’inizio anteriore, non vi è imitazione, non vi è ricreazione, ma incontro tra l’intelligenza, la tecnica e lo sguardo anteriore entro cui l’intervallo trova ritmo sull’aldilà del tempo, sul tempo dell’origine.
Adamo nel giardino terrestre nomina le cose per la prima volta. Esso chiama se stesso con il migba.

Quindi una nota d’accordo per introdurre alla lettura del testo di Giampaolo Lai è intorno a ciò che non è. Non è il discorso d’identità e della dis-identità; non è nemmeno il discorso dell’an-indentità, piuttosto si tratta di leggere la parola, l’anima, lo specchio allucinato, l’atomo, che il demiurgo ha arrangiato -rafforzato- in materia intellettuale. 

Francis

martedì 14 febbraio 2012

Giampaolo Lai. -i- Senza Nome.

"Una rilettura lungo il testo della sua esperienza". 


Intorno alla lettura di Giampaolo Lai (1999) s’agita la questione “della guerra, delle migrazioni, del caos” come i tristi animali del terzo millennio. La lettura svolge la questione dell’animale, che animalizzato e localizzato, edifica il proprio Tempio nella metamorfosi greca: Dio-animale. 



Una questione che s’accosta, per parusia, al mito greco è il mito ebraico, entro cui il millenarismo: colui che verrebbe a regnare, a edificare un tempio per mille anni, sarebbe il Messia. L’apparizione del Messia, letta da Gérard Haddad, apre la parola Comune, il fantasma di Padronanza della vita, il Tempo.

Il fantasma del tempo è questione clinica. La clinica del tempo è la clinica della parola che, dall’ ossimoro “non solo-Ma anche”, apre le porte all’altro: il diverso.
Il diverso è diversità e non diversione dei fatti, dove ancora il relativismo impera come maniera di vedere anziché modo di guardare.
La maniera come stile di scrittura. La bella scrittura.
Il manierismo la bella copia. La copia della copia. L’uno che fa uno con sé in maniera algebrica, e che il cerchio si chiuda.

Il modo è altro, esso esige il dispositivo, la piega, il fare come apertura intellettuale. 
L’uomo non è lo stile, non è la bella calligrafia o "lo stile Barocco", tanto amato da Lacan. Esso è modo, è tratto, è accento linguistico che ricerca la politica altra, quella diplomatica entro cui accordarsi.   

La bellezza, il fascino magnetico, sono i limiti dell’impero; della Necropolis, la cui maniera metamorfica trova genealogia dalla città arcaica a quella postmoderna.  Dalla città macerata alla città ideale. Un’idea di città e di Tempio: il regno di Dio-Uomo sulla terra.  Il regno di Dio-Uomo è il regno delle mura entro cui l’arte non può entrare. Esso è il trono del pensiero, è l’impero dell’eccellentissima mente, è la regalità della “scienza” che ha ragione, per partito preso, in maniera sragionata.

“A ciascuno la sua città, la sua impresa" Armando Verdiglione. Tanta chiarezza e semplicità può abbacinare chi persegue il lotto, la lottizzazione dello spazio, la fetta di città da accaparrare, amministrare e assumere, credendo nella città dell’Altro.
Se la città fosse la riserva dell’Altro, l’uno si condannerebbe a riprodurla in modo economico, come riserva personale. La riserva mentale sospende le ragioni di vita, sospende l’arte, la cultura e la scienza per occuparsi politicamente della città spaziale da riorganizzare.

L’ordine e il dis-ordine dispongono della Necessità.  L’ordine della necessità e la necessità dell’ordine (Freud) vengono investiti dal macchinismo della morte, in cui la festa trova la sua istanza.  La festa è eccesso, è guerra, è caos, è migrazione, dove tutti s’accodano e s’iscrivono a questo o a quel partito.  Sospendere la norma afferma la Res pubblica nella normalizzazione pubblica dove, di norma, le proprietà alchemiche circolano.  
La festa è il tempio dell’alchimia, del dispendio senza riserva e dell’investimento senza riserva, essa è il luogo dell’ossimoro (se A allora A). Occhio per occhio, dente per dente, in maniera esponenziale.

“A ciascuno e non a ognuno, la sua logica. Ciascuno, ovvero quell’uno che è preso nella differenza da sé non rimane indifferente all’altro” Giancarlo Calciolari. L’indifferenza è guerra. È razzismo.
Giampaolo Lai scrive: “(Poi) ci sono gli altri, i non identici, i diversi che minacciano la nostra salvezza facendosi specchio del nostro caos terrorizzante”, “i diversi parlano una lingua diversa” la lingua altra.


L’alingua, la chiave ch’apre le porte all’arte, alla poesia, non ha classificazione etnica, non ha bisogno d’essere o d’avere senso sulla lista.
L’aPoesia è inclassificabile, in-localizzabile ed esige l’intelletto, la lettura tra le righe, per intenderla. Essa fa rimbalzare qua e là accenti e toni trovando funzione etica.

La guerra non è figlia né madre. La guerra è tra le righe, è una battaglia intellettuale, se non fosse tale si ridurrebbe a campo di concentramento.  Il campo è altro, il campo di concentramento erige il Nome, nel Nome-del-Padre. In nome di Dio, in Nome dell’Etnia, s’instaura la vertigine della specie. Il fantasma genealogico innalza l’araldica della politica, e la falsità indossa l’abito della chiarezza.

L’inciampo è chiaro a chi veste l’oscurità.

Il Nome come vestito dell’identità e dell’appartenenza a tale città ideale, è il nome di Teseo.
“Abitare con Dio-Animale” lo lascia nell’oscurità della diversità tra Dio e l’animale dove ciascuno trova la sua funzione. Il discorso religioso vuole la trinità Dio-Uomo-Animale sospendendo così la parola religiosa, la preghiera originaria.

L’originale non è l’originario. L’originario è il fare con materia e in materia del fare il plurale non ha copia. Il plurale, i diversi, -i- Senza Nome, non hanno bisogno di carta d’identità (un nome sul nome) poiché, scrive Lai: “essi sono senza nome, nessuno può chiamarli. Nessuno può riconoscerli, perché sono state cancellate le loro coordinate di origine e di appartenenza. Nessuno sa da dove vengono né dove vanno, perché propriamente, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte”. Il loro viaggio, la loro dissidenza, non trova dramma, ma cittadinanza nel fare -nell’impresa-, il cui unico effetto è artistico. 

Francis

Disidentità.

[…] La guerra, le migrazioni, il caos, tristi animali dell’apocalisse a cavallo tra i due millenni, interessano dunque qui non solo perché ci precipitano nel dramma dei nostri giorni e perché proiettano una nube plumbea sul nostro futuro, ma anche perché intersecano in maniera decisiva le vicende dell’identità e della disidentità. La guerra ha il fascino magnetico della lucida bipenne che ordina il disordine, che normalizza il caos: di qua del taglio netto ci siamo noi, gli identici omologati dalla medesimezza; di là, fuori, ci sono gli altri, i non identici, i diversi che minacciano la nostra salvezza facendosi specchio del nostro caos terrorizzante. Come una perfetta geometria appare allora agli occhi di ogni gruppo di identici, di co-identici nella medesimezza, il fatto che il Kosovo ha il suo nemico nella Serbia, esattamente come la Nato ha il suo nemico nella Serbia, esattamente come la Serbia ha il suo nemico nella Nato e nel Kosovo; che da quella parte, o dall’altra, si lotta per l’indipendenza, mentre dalla parte simmetrica si lotta per l’asservimento dei popoli. Ma la guerra, figlia del caos e dei metissaggi delle migrazioni, si trasmuta in prolifica madre di caos e di migrazioni, sfociando sempre più spesso e sempre più massicciamente nella forma della pulizia etnica, paradossalmente scatenata proprio per normalizzare il caos, per purificare il diverso perché gli accade di parlare una lingua diversa, di provenire da una razza diversa, di adorare un dio diverso.

Ora, le migrazioni alle quali assistiamo, per molti aspetti drammatici e disperati, sono probabilmente uguali a tutte le migrazioni di tutti i tempi; un fenomeno spaziale di masse di individui senza orizzonte che attraversano un limite, escono da un luogo proprio per entrare in luogo d’altri, diventando, nel collo della clessidra, stranieri rispetto alla terra da cui sono partiti e stranieri verso la terra di approdo. Ma nelle migrazioni attuali, - sembra non esserci ostacolo all’escalation dell’orrore, - troviamo un fenomeno che in qualche modo rappresenta un perfezionamento delle situazioni concentrazionarie. Ai migranti cacciati dal Kosovo non solo vengono sottratti beni e soldi, ma vengono tolti i documenti, strappate le targhe delle auto, bruciati i libretti di circolazione. Dopo, nessuno può chiamarli, perché sono senza nome; nessuno può riconoscerli perché sono state cancellate le loro coordinate di origine e di appartenenza; nessuno sa da dove vengono né dove vanno, perché propriamente, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte. Come chi è senza nome. I nuovi tragici migranti semplicemente non sono. Non uguali a chi li caccia ma nemmeno differenti, impossibilitati ad accedere alle differenze dell’identità sono resi an-identici, secondo il concetto introdotto da Antonino Minervino. Una volta però approdati sulle nostre terre della ricchezza inaudita, gli ospiti nuovi an-identici, senza abiti e senza nome, gli stranieri venuti dal fango e dal mare diventano lo specchio allucinato dell’anima in cui ciascuno di noi incontra l’immagine delle proprie metamorfosi che non ha mai voluto vedere: il morto vivente, la larva farfalla, il Minotauro mostro e fratello. E da qui potrà ricominciare l’inesausto ritorno delle figure immutabili del ciclo, sulle tracce di un Teseo sempre disposto a riportare l’ordine nel caos, a purificare gli spazi contaminati dall’ospite ibrido, sia con la furbizia del gomitolo sia con la violenza della spada. Ma, anche nei giorni della guerra, delle migrazioni, del caos, la disidentità ci consente la scelta di abitare il labirinto assieme al Minotauro, senza gomitolo e senza spada. […] [Disidentità, Lai G., 1999]

lunedì 13 febbraio 2012

La Chance.

Che cosa può offrire la.chance? offre un'occasione, non una qualunque, ma l'unica che si può offrire nella sua istanza laica, la vita. la.chance offre la vita. offre l'occasione di vivere, di intraprendere di trasformare e impiegare per disporre. come farlo? come vivere? quale percorso intraprende? quale itinerario? le letture cifrematiche e psicanalitiche, le letture della scienza della parola, intervengono, attraverso la parola con l'impossibile. impossibile già sapere. impossibile conoscere, impossibile delegare il pragmatismo. Ecco la novità: come fare a fare le cose? Facendole!! come fare a vivere? Vivendo!! Ascoltando, non già interpretando, si trova la piega, e il rischio di ciò che si ode della vita esige il diploma, la diplomazia, la politica altra, il tempo: il giardino terrestre!  Francis