-La terra ,
il fango, il mare- sono accenti
che s’accordano con il Genesi e con la topologia rappresentata da Lacan. La
lettura s’accosta alla Genesi ebraica: Breshit tradotto come l’inizio, il cominciamento
anteriore. L’inizio per l’ebreo è
in-lineare, mentre per il greco l’inizio circola. Il tempo è un cerchio chiuso
come scrive Platone nel Timeo.
G. Lai
riferisce la questione della terra dove vi si rintracciano le questioni intorno
la diversità e la divisione. “Dio
plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita”
in ebraico Adam è terrestre, Adamah è terra. La polvere di terra. Quindi
intanto la polvere.
La mia
lettura intorno la questione è originaria, è una lettura non specialistica.
L’incontro è
tra la dimensione del deserto e la polvere.
“Migba” in
ebraico non è il vuoto del deserto come la lettura italiana propone, esso è la “parola”. Il deserto parla, la sabbia parla.
La sabbia è
originaria della parola, del cibo che, come la Bibbia vuole insegnare all’uomo
è alimento, vita. L’infinito, l’otto.
L’uomo è
artefice della sua vita, la sua volontà si trova sempre sul livello della
costruzione permanente di tale. Artista
delle sue regole, delle sue parole, egli le ricerca perché sono fondazione di una Torah personale
che risalgono all’origine: il libro fondatore.
Lo sguardo e
lo specchio sono questioni importanti per leggere Giampaolo Lai con l’ebraismo.
Per l’ebreo
il mondo non si fonda né ha fondamento nell’immagine, nell’imago di Lacan, ma
piuttosto, per mezzo della costruzione e della modulazione, esso s’incontra con
l’infinito.
La tensione
compiuto-incompiuto, il continuo movimento, viene letto nel testo Biblico de
–Il cantico dei cantici- dove un ragazzo e una ragazza non trovano mai
l’incontro perché nel istante in cui lui la raggiunge, lei fugge.
L’inconciliabile trova la posizione impossibile di Dio, dell’infinito, dell’uomo, dove la funzione
della ricerca di se stesso, procede da se stesso.
La ricerca
verso se stessi è la ricerca della terra, dello spazio, dell’infinito che si
elabora davanti o dietro noi stessi nella parola originaria.
“Una volta però approdati sulle nostre terre
della ricchezza inaudita, senza abiti e senza nome, gli stranieri venuti dal
fango e dal mare, diventano lo specchio allucinato dell’anima”
Lo
specchio allucinato dell’anima è la posizione impossibile dell’infinito, la
posizione del padre.
Nel Genesi, Breschit,
l’inizio anteriore, non vi è imitazione, non vi è ricreazione, ma incontro tra
l’intelligenza, la tecnica e lo sguardo anteriore entro cui l’intervallo trova
ritmo sull’aldilà del tempo, sul tempo dell’origine.
Adamo nel
giardino terrestre nomina le cose per la prima volta. Esso chiama se stesso con
il migba.
Quindi una
nota d’accordo per introdurre alla lettura del testo di Giampaolo Lai è intorno
a ciò che non è. Non è il discorso d’identità e della dis-identità; non è nemmeno il
discorso dell’an-indentità, piuttosto si tratta di leggere la parola, l’anima,
lo specchio allucinato, l’atomo, che il demiurgo ha arrangiato -rafforzato- in materia intellettuale.
Francis
in materia di fango e di mare apporteremo una nota il più presto possibile.
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