La questione
qui lanciata fonda le radici in una rilettura del discorso lacaniano entro cui, la posizione dell’analista, non si fonda sul discorso: la chiacchiera politica
appartenente a chissà quale partito o religione, ma piuttosto è quella della
politica della parola che nel suo atto traccia la sua etica.
Lo scritto
si differenzia dalla parola. Lo scritto, preso in se stesso, pretende il commento
dell’altro senza intesa linguistica. Senza tensione d’accordo.
L’indiscrezione
nel commento trova ragion sufficiente nella sua posizione vertiginosa,
ma la
questione è sempre lungo il filo dell’esperienza, dove l’analista è sempre supposto sapere quello che fa
aprendo così ciascuna chance al malinteso. Il supposto è la Cosa per Lacan.
Sigmund
Freud scrive “ alla rappresentazione
della parola si connette la rappresentazione dell’oggetto contenente le
associazioni oggettuali”.
Perciò l'oggetto ha la sembianza di una cosa, dotata di impressioni sensorie provenienti dall’oggetto.
L’oggetto
quindi è sembiante di qualcosa la quale sembianza si veste di forma.
Le
rappresentazioni non riguardano l’immagine, non riguardano l’immagine di
Dio, esse sono anzitutto
rappresentazioni di oggetto/di cosa e rappresentazioni di parola dove vi si
accorda la sembianza e il sembiante nell’attimo della funzione.
L’attimo non
si distende lungo linea del tempo, quindi non è potenziale, non può essere elevato
a potenza, ma esso è un atomo indivisibile, è l’istante nella sua funzione
infinita.
L’istante è
un segno ma, occorre non dimenticare la parola perché senza tale parola
l’analisi s’inceppa sospendendosi.
La parola è
il vaso da cui escono i doni del linguaggio.
Jacques Lacan
fa riferimento al vaso di Pandora scrivendo: “l’importante è che paroliate!”
La questione
ebraica s’accorda sulla lettura psicanalitica occidentale, entro i toni
dell’ordinale: c’è un ordine nelle cose ma non un ordine ordinale, non c’è
gerarchia perché ciascuna cosa, s’associa, si coglie accanto alle altre facendole
così risultare assolute alla composizione del quadro. La lettura coglie l’invisibile muovendo lo sguardo l’ascolto,
l’emozione.
La verità
dunque si rintraccia nella libera associazione, perché non c’è nulla di più
libero delle variabili matematiche dove, tra un matema e l’altro si denota l’istanza
del ritmo: l’aritmetica.
La lettura è
sinestetica, la parola è sinestetica; la sinestetica è sensibilità sonora.
Con Armando
Verdiglione la sensibilità sonora diviene tonale. I toni s’accordano sul filo e
la corda del linguaggio entro cui l’universo s’estende nell’attimo atomico.
Quindi non
c’è più relativismo ipotizzato da Einstein, perché l’attimo trova la sua
funzione, e il tempo non corre più sulla percezione, quindi dal nervo acustico
al nervo ottico, ma esso diviene nella nota, nel punto, nel tratto, nella
linea, l’accento che compone la parola, il periodo, la frase, l’etica.
Leggere la
parola ebraica è leggere l’avveniere, il divenire anteriore, alla radice.
La radice,
Kedem, è origine, è parola originaria dove, come l’ebreo dice, l’uomo deve avere i piedi nel progresso e la
testa nell’origine.
Il tempo
ebraico non è lineare; l'ebreo vive sopra la natura e considera il tempo un’altro
tempo. Per lui esso è l’Altro.
Il Talmud
insegna che la genetica del tempo è domanda, dove tutto è paradosso e
moltitudine di domande, di voci, di saggi, d’interpretazioni senza fine, di Scritti.
Ecco la nostra
impresa intellettuale, la lettura, intorno agli Scritti, de
Monsieur Jacques Lacan, e intorno
i vasi che, nella Cabala, risultano rotti perché l’assenza della parola diverrebbe
insopportabile poiché la luce ci renderebbe tutti cechi.
Per
concludere il grafo è forma scritta, è segno che, all’incrocio con l’analista,
per dirlo con Lacan, rintraccia l’origine, la lettera, l’alfabeto, l’atomo, la
molecola che trova modulazione tonica nella scrittura dell’esperienza.
Francis
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