martedì 14 febbraio 2012

Giampaolo Lai. -i- Senza Nome.

"Una rilettura lungo il testo della sua esperienza". 


Intorno alla lettura di Giampaolo Lai (1999) s’agita la questione “della guerra, delle migrazioni, del caos” come i tristi animali del terzo millennio. La lettura svolge la questione dell’animale, che animalizzato e localizzato, edifica il proprio Tempio nella metamorfosi greca: Dio-animale. 



Una questione che s’accosta, per parusia, al mito greco è il mito ebraico, entro cui il millenarismo: colui che verrebbe a regnare, a edificare un tempio per mille anni, sarebbe il Messia. L’apparizione del Messia, letta da Gérard Haddad, apre la parola Comune, il fantasma di Padronanza della vita, il Tempo.

Il fantasma del tempo è questione clinica. La clinica del tempo è la clinica della parola che, dall’ ossimoro “non solo-Ma anche”, apre le porte all’altro: il diverso.
Il diverso è diversità e non diversione dei fatti, dove ancora il relativismo impera come maniera di vedere anziché modo di guardare.
La maniera come stile di scrittura. La bella scrittura.
Il manierismo la bella copia. La copia della copia. L’uno che fa uno con sé in maniera algebrica, e che il cerchio si chiuda.

Il modo è altro, esso esige il dispositivo, la piega, il fare come apertura intellettuale. 
L’uomo non è lo stile, non è la bella calligrafia o "lo stile Barocco", tanto amato da Lacan. Esso è modo, è tratto, è accento linguistico che ricerca la politica altra, quella diplomatica entro cui accordarsi.   

La bellezza, il fascino magnetico, sono i limiti dell’impero; della Necropolis, la cui maniera metamorfica trova genealogia dalla città arcaica a quella postmoderna.  Dalla città macerata alla città ideale. Un’idea di città e di Tempio: il regno di Dio-Uomo sulla terra.  Il regno di Dio-Uomo è il regno delle mura entro cui l’arte non può entrare. Esso è il trono del pensiero, è l’impero dell’eccellentissima mente, è la regalità della “scienza” che ha ragione, per partito preso, in maniera sragionata.

“A ciascuno la sua città, la sua impresa" Armando Verdiglione. Tanta chiarezza e semplicità può abbacinare chi persegue il lotto, la lottizzazione dello spazio, la fetta di città da accaparrare, amministrare e assumere, credendo nella città dell’Altro.
Se la città fosse la riserva dell’Altro, l’uno si condannerebbe a riprodurla in modo economico, come riserva personale. La riserva mentale sospende le ragioni di vita, sospende l’arte, la cultura e la scienza per occuparsi politicamente della città spaziale da riorganizzare.

L’ordine e il dis-ordine dispongono della Necessità.  L’ordine della necessità e la necessità dell’ordine (Freud) vengono investiti dal macchinismo della morte, in cui la festa trova la sua istanza.  La festa è eccesso, è guerra, è caos, è migrazione, dove tutti s’accodano e s’iscrivono a questo o a quel partito.  Sospendere la norma afferma la Res pubblica nella normalizzazione pubblica dove, di norma, le proprietà alchemiche circolano.  
La festa è il tempio dell’alchimia, del dispendio senza riserva e dell’investimento senza riserva, essa è il luogo dell’ossimoro (se A allora A). Occhio per occhio, dente per dente, in maniera esponenziale.

“A ciascuno e non a ognuno, la sua logica. Ciascuno, ovvero quell’uno che è preso nella differenza da sé non rimane indifferente all’altro” Giancarlo Calciolari. L’indifferenza è guerra. È razzismo.
Giampaolo Lai scrive: “(Poi) ci sono gli altri, i non identici, i diversi che minacciano la nostra salvezza facendosi specchio del nostro caos terrorizzante”, “i diversi parlano una lingua diversa” la lingua altra.


L’alingua, la chiave ch’apre le porte all’arte, alla poesia, non ha classificazione etnica, non ha bisogno d’essere o d’avere senso sulla lista.
L’aPoesia è inclassificabile, in-localizzabile ed esige l’intelletto, la lettura tra le righe, per intenderla. Essa fa rimbalzare qua e là accenti e toni trovando funzione etica.

La guerra non è figlia né madre. La guerra è tra le righe, è una battaglia intellettuale, se non fosse tale si ridurrebbe a campo di concentramento.  Il campo è altro, il campo di concentramento erige il Nome, nel Nome-del-Padre. In nome di Dio, in Nome dell’Etnia, s’instaura la vertigine della specie. Il fantasma genealogico innalza l’araldica della politica, e la falsità indossa l’abito della chiarezza.

L’inciampo è chiaro a chi veste l’oscurità.

Il Nome come vestito dell’identità e dell’appartenenza a tale città ideale, è il nome di Teseo.
“Abitare con Dio-Animale” lo lascia nell’oscurità della diversità tra Dio e l’animale dove ciascuno trova la sua funzione. Il discorso religioso vuole la trinità Dio-Uomo-Animale sospendendo così la parola religiosa, la preghiera originaria.

L’originale non è l’originario. L’originario è il fare con materia e in materia del fare il plurale non ha copia. Il plurale, i diversi, -i- Senza Nome, non hanno bisogno di carta d’identità (un nome sul nome) poiché, scrive Lai: “essi sono senza nome, nessuno può chiamarli. Nessuno può riconoscerli, perché sono state cancellate le loro coordinate di origine e di appartenenza. Nessuno sa da dove vengono né dove vanno, perché propriamente, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte”. Il loro viaggio, la loro dissidenza, non trova dramma, ma cittadinanza nel fare -nell’impresa-, il cui unico effetto è artistico. 

Francis

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