giovedì 8 marzo 2012

L'INDUISMO.

Ma allo scopo di proteggere tutta la creazione il luminoso creò attività innate divise per quelli nati dalla sua bocca, dalle sue braccia, dalle sue cosce e dai suoi piedi. Ai sacerdoti ordinò di insegnare e di studiare, di sacrificare per sé stessi e di sacrificare per conto di altri, di donare e ricevere. Al sovrano, in breve, di proteggere i sudditi, di donare, di far celebrare i sacrifici, di studiare e di rimanere distaccato dagli oggetti dei sensi. All'uomo comune di proteggere il proprio bestiame, di donare, di far celebrare sacrifici, di studiare, di commerciare, di prestare denaro e di coltivare la terra. Il Signore assegnò al servo una sola attività: servire queste (altre classi) senza risentimento.”-Manusmrti I, 87-91.  -Le Leggi di Manu-

S’agita, nella lettura,  un numero entro cui il fare e la riflessione indiana si divide in caste, stadi, e scopi, il numero quattro, che nella forma viene rappresentata attraverso il divino con i suoi arti. Dall’arto, e dall’articolazione di tale, procede la competenza, e a seconda della competenza, e non secondo competenza, la capacità umana svolge la sua innanità.  L’innanità è della frase dove il costrutto teorico non s’avvale di teoria, ma di consacrazione fatale.

Questa prima nota intorno l’india, si declina sulla metafora filosofica, piuttosto che cifrematica, entro cui il dilaogo indo-cristiano s’avvale della funzione economica, come macchina strutturante di una messa in scena del logos.  La stessa performance, platonicamente parlando, avviene, con necessità funzionale, nel dialogo euro-arabico.  Bat Ye’or inventa la parola eurabia che venne ripresa più avanti da Oriana Fallaci dove ci si interroga sulla radice dell’equivalenza: il diritto umano, la libertà di coscienza, la parità, la proprietà laicista.

Sicché, il referente s’evacua, la logica dell’interrogazione e della risposta, compete alla costruzione della logia e dell’ontologia, del pragma e della spiegazione di tale.
Questa isotropia trova i fondamenti, ma non di certo fondazione, sul codice che precede l’esecuzione, cosicché si tracci una parabola dove, l’uguaglianza è marchio della distinzione e delle proprietà. La proprietà, quella tagliata in gruppi e sotto gruppi, fino allo schiavo al servizio dello stato.

Il periodo statale, quello politico s’apre con i Veda (verità o sacra conoscenza) il sacro come il simbolico, i sacri simboli, quelli eterni quelli innati,  definisco l’uomo nella narrazione antropologica tra il 3000 e il 400 a.C. entro cui, il raccoglimento del dia-logos, si suddivide, nel periodo vedico, in Samihita (raccolta degli inni), Brahman( composizioni sacerdotali di riti) e Upanishad ( filosofia).
Tale facoltà divine competenza narrativa del senso, il quale trova misura del vero valore, o del suo opposto, il falso, per stabilire la legge divina, l’essenza dei nomi che sono strumento. Al tempo stesso, naturalmente, vi si rintraccia buon senso.

Il potere creativo della grammatica, la facoltà simbolica, o come viene tradotta dai semiologi, l’attività narrativa, trova sistema, un sistema castale, dove la conoscenza e l’osservazione qualifica la comprensione dell’altro sul processo biassiale paradigmatico e sintagmatico: l’estrema neutralità.  

Tale indifferenza trova la dinastia dei Maurya 560-200 a.C. l’età dei Sutra (sei trattati supplementari ai Veda, dove si celebrano rituali di pronuncia, metrica, etimologia, grammatica, e norme cerimoniali). Questa creatività normale ha presupposti mitici, dove ognuno s’inscrive alla mediazione artistica, alla norma funzionale, quella economia del discorso che serve al linguaggio per la conoscenza, l’ortografia in quanto ortodossia. 
La gerarchia degli elementi grammaticali, l’ortografia, trova definizione di limite entro cui, l’operazione del politico, è quella di rappresentate. Il politico è il mercante, il sacerdote politico,  fonda e spinge la funzione economica all’essenza, al buon senso, che fonda l’umanesimo.  L’umanesimo come creazionismo è creazione marginale dell’arte grafica: scrittura del carattere.  

Ecco dunque il livello del teatro, dell’opera che, stoica, distribuisce ruoli e investiture, dove la dipendenza sacrale apre il terzo periodo, la dinastia dei Gupta 200-300 a.C. dei Itihasa ( tradotto :“così invero fu”, dove si decantano poemi leggendari e popolari) poemi festivi, da cui procedono gli “ossequi” di commercianti liberi, mercanti di sogni, che fondano, o affondano, in radici, fiscali.  Le radici fiscali sono effetti macchinosi del sacro, dove ognuno è inscritto per evitare rischi insensati, secondo buon senso o senso comune, insomma di senso popolare.

Pertanto la festa popolare, la festa di stato, la festa presa nel macchinismo, accenna la sospensione, per inaugurale l’iterazione tra immagine  e corpo, tra forma e materia.
Il primato marginale trova territorio tra costituzione e istituzione, la cui grammatica discorsiva, comporta un sovvertimento radicale: il discorso dominante s’agita sulla competenza funzionale. Il modello si modifica e nel senso popolare, l'ironia. Nell’ironia la tipografia.  La scrittura del tipo, del particolare, la scrittura del servo.  

Nel quarto periodo 300-650 d.C. l’epoca  dei Purana , vengono raccontate storie ( la creazione dell’universo; la sua distruzione a la sua ricreazione, la genalogia degli Dèi; i regni, Il mondo; i sistemi solari). Quest’epoca è l’epoca dell’opera silenziosa dove, il filo e la corda della storia vibrano di pazienza.  La pazienza senza risentimento è virtù.  La virtù di grandi poeti che lasciano traccia nella storia, una traccia tipografica. Il carattere non popolare dell’induismo: hindū, del fiume della vita, il fiume indo, trova grado e forma sempre in divenire nella sua istanza. Il servo si mette alla prova, e messa alla prova è la parola: il viaggio intellettuale.  La fede e la speranza trovano decisione con l’esperienza di parola, di etica, segnatamente nell’esercizio del silenzio ch'è difficile, ed occorre la difficoltà, l’errore, a riguardare la riflessione. La riflessione è la meditazione come circostanza fortuita: il paradosso. 
La circostanza fortuita del silenzio è in-tematizzabile. Essa ha sembianza solo per sembiante e attraverso l’inconciliabile, i Veda della conoscenza, sono proposizione.  

La voce, la parola, i toni, , sono tracce sensibili di una costituzione,  altra cosa è il grado zero, lo stato del silenzio, quello che vacilla e trema , quello che non è dato a nessuno attraversare. L’astrazione dell’ascolto: la silente vertigine.
L’ascolto come lacerazione del grido interiore che invoca la parola, né il discorso, né il dialogo, rivelatrice.  Lo stato non può essere rappresentato, per gli “hindū” è inteso come la folgorazione di Dio, un colore sacro. In certuni luoghi, dal sanscrito, il cielo è detto svarga, dove le divinità restano accessibili a chi segue il rito, ma esiste la parola kha a indicare insieme cielo e caverna, spazio e cavità: mentre akasa è lo spazio illimitato, in cui nessuno abita, tranne il distacco.

La poesia che tende al silenzio come propria condizione non può prescindere dalla voce, e la pronuncia diventa la verifica storica, vivente, della parola.

Il vibrato, tradotto dal latino con folgorare, dell’armonia tra i partiti e le religioni, strazia l’atto del silenzio. Ecco che chi rappresenta il silenzio, si trova spaesato perché infinito.

Silenzio in poesia non indica e non significa il punto ma il disappunto più contenuto della parola, il vertice di una condizione in cui l’ascolto risulta massimamente acuito. 
La pagina bianca di Mallarmé divine segno di una scrittura assente, entro cui l’atto è secondo.  Questa l’economia infinita della scrittura della parola, la cui piega poetica è tipografica, è qualità materiale, in materia d'intelletto.

Mildo de Angelis scrive: "il silenzio è invece l’assenza tra due note, il nulla fra due assenze, la rottura del ritmo, il corpo".  Per corpo e ritmo s’intende l’atomo che compone lo spazio e che ricerca sempre attraverso la modulazione, il modo. Il modo silenzioso, paziente, astratto.

Per abduzione da tale questione concludiamo con una poesia di Maria Luisa Vezzali:

Se il silenzio è il sonno
in cui noi strettissimi
sogniamo il sogno bianco
calmo, in attesa, senza
tregua, del predatore/
bocca intatta infinita
di sprofondante scala
a chiocciola dell’orecchio
verso luoghi interiori
unisoni col tacet degli dei
nel fondo della neve,
nel fondo della notte.

Francis

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