S’agita,
nella lettura, un numero entro cui
il fare e la riflessione indiana si divide in caste, stadi, e scopi, il numero
quattro, che nella forma viene rappresentata attraverso il divino con i suoi
arti. Dall’arto, e dall’articolazione di tale, procede la competenza, e a
seconda della competenza, e non secondo competenza, la capacità umana svolge la sua innanità. L’innanità è
della frase dove il costrutto teorico non s’avvale di teoria, ma di
consacrazione fatale.
Questa prima
nota intorno l’india, si declina sulla metafora filosofica, piuttosto che
cifrematica, entro cui il dilaogo indo-cristiano s’avvale della funzione economica,
come macchina strutturante di una messa in scena del logos. La stessa performance, platonicamente
parlando, avviene, con necessità funzionale, nel dialogo euro-arabico. Bat Ye’or inventa la parola eurabia che venne ripresa più avanti da
Oriana Fallaci dove ci si interroga sulla radice dell’equivalenza: il diritto
umano, la libertà di coscienza, la parità, la proprietà laicista.
Sicché, il
referente s’evacua, la logica dell’interrogazione e della risposta, compete
alla costruzione della logia e
dell’ontologia, del pragma e della spiegazione di tale.
Questa
isotropia trova i fondamenti, ma non di certo fondazione, sul codice che
precede l’esecuzione, cosicché si tracci una parabola dove, l’uguaglianza è
marchio della distinzione e delle proprietà. La proprietà, quella tagliata in
gruppi e sotto gruppi, fino allo schiavo al servizio dello stato.
Il periodo
statale, quello politico s’apre con i Veda
(verità o sacra conoscenza) il sacro come il simbolico, i sacri simboli, quelli
eterni quelli innati, definisco
l’uomo nella narrazione antropologica tra il 3000 e il 400 a.C. entro cui, il
raccoglimento del dia-logos, si suddivide, nel periodo vedico, in Samihita (raccolta degli inni), Brahman( composizioni sacerdotali di
riti) e Upanishad ( filosofia).
Tale facoltà
divine competenza narrativa del senso, il quale trova misura del vero valore, o
del suo opposto, il falso, per stabilire la legge divina, l’essenza dei nomi
che sono strumento. Al tempo stesso, naturalmente, vi si rintraccia buon senso.
Il potere
creativo della grammatica, la facoltà simbolica, o come viene tradotta dai
semiologi, l’attività narrativa, trova sistema, un sistema castale, dove la
conoscenza e l’osservazione qualifica la comprensione dell’altro sul processo
biassiale paradigmatico e sintagmatico: l’estrema neutralità.
Tale
indifferenza trova la dinastia dei Maurya 560-200 a.C. l’età dei Sutra (sei trattati supplementari ai
Veda, dove si celebrano rituali di pronuncia, metrica, etimologia, grammatica,
e norme cerimoniali). Questa creatività normale ha presupposti mitici, dove ognuno
s’inscrive alla mediazione artistica, alla norma funzionale, quella economia
del discorso che serve al linguaggio per la conoscenza, l’ortografia in quanto
ortodossia.
La gerarchia
degli elementi grammaticali, l’ortografia, trova definizione di limite entro
cui, l’operazione del politico, è quella di rappresentate. Il politico è il
mercante, il sacerdote politico,
fonda e spinge la funzione economica all’essenza, al buon senso, che
fonda l’umanesimo. L’umanesimo
come creazionismo è creazione marginale dell’arte grafica: scrittura del
carattere.
Ecco dunque
il livello del teatro, dell’opera che, stoica, distribuisce ruoli e
investiture, dove la dipendenza sacrale apre il terzo periodo, la dinastia dei
Gupta 200-300 a.C. dei Itihasa (
tradotto :“così invero fu”, dove si decantano poemi leggendari e popolari)
poemi festivi, da cui procedono gli “ossequi” di commercianti liberi, mercanti
di sogni, che fondano, o affondano, in radici, fiscali. Le radici fiscali sono effetti macchinosi del sacro, dove
ognuno è inscritto per evitare rischi insensati, secondo buon senso o senso
comune, insomma di senso popolare.
Pertanto la
festa popolare, la festa di stato, la festa presa nel macchinismo, accenna la
sospensione, per inaugurale l’iterazione tra immagine e corpo, tra forma e materia.
Il primato
marginale trova territorio tra costituzione e istituzione, la cui grammatica
discorsiva, comporta un sovvertimento radicale: il discorso dominante s’agita
sulla competenza funzionale. Il modello si modifica e nel senso popolare, l'ironia. Nell’ironia la tipografia.
La scrittura del tipo, del particolare, la scrittura del servo.
Nel quarto
periodo 300-650 d.C. l’epoca dei Purana , vengono raccontate storie ( la
creazione dell’universo; la sua distruzione a la sua ricreazione, la genalogia
degli Dèi; i regni, Il mondo; i sistemi solari). Quest’epoca è l’epoca
dell’opera silenziosa dove, il filo e la corda della storia vibrano di
pazienza. La pazienza senza
risentimento è virtù. La virtù di
grandi poeti che lasciano traccia nella storia, una traccia tipografica. Il
carattere non popolare dell’induismo: hindū, del
fiume della vita, il fiume indo, trova grado e forma sempre in divenire nella
sua istanza. Il servo si mette alla prova, e messa alla prova è la parola: il
viaggio intellettuale. La fede e
la speranza trovano decisione con l’esperienza di parola, di etica, segnatamente nell’esercizio
del silenzio ch'è difficile, ed occorre la difficoltà, l’errore, a riguardare la riflessione. La
riflessione è la meditazione come circostanza fortuita: il paradosso.
La circostanza fortuita del silenzio è
in-tematizzabile. Essa ha sembianza solo per sembiante e attraverso
l’inconciliabile, i Veda della conoscenza, sono proposizione.
La voce, la parola, i toni, ,
sono tracce sensibili di una costituzione, altra cosa è il grado zero, lo stato del silenzio, quello che
vacilla e trema , quello che non è dato a nessuno attraversare. L’astrazione
dell’ascolto: la silente vertigine.
L’ascolto come lacerazione del grido interiore che
invoca la parola, né il discorso, né il dialogo, rivelatrice. Lo stato non può essere rappresentato,
per gli “hindū” è inteso come la folgorazione di Dio, un colore sacro. In certuni luoghi,
dal sanscrito, il cielo è detto svarga, dove le divinità restano
accessibili a chi segue il rito, ma esiste la parola kha a indicare
insieme cielo e caverna, spazio e cavità: mentre akasa è lo spazio
illimitato, in cui nessuno abita, tranne il distacco.
La poesia che
tende al silenzio come propria condizione non può prescindere dalla voce, e la
pronuncia diventa la verifica storica, vivente, della parola.
Il vibrato, tradotto dal latino con folgorare, dell’armonia tra i partiti e le religioni, strazia l’atto del silenzio. Ecco che chi rappresenta il silenzio, si trova spaesato perché infinito.
Il vibrato, tradotto dal latino con folgorare, dell’armonia tra i partiti e le religioni, strazia l’atto del silenzio. Ecco che chi rappresenta il silenzio, si trova spaesato perché infinito.
Silenzio in poesia
non indica e non significa il punto ma il disappunto più contenuto della
parola, il vertice di una condizione in cui l’ascolto risulta massimamente
acuito.
La pagina bianca
di Mallarmé divine segno di una scrittura assente, entro cui l’atto è
secondo. Questa l’economia
infinita della scrittura della parola, la cui piega poetica è
tipografica, è qualità materiale, in materia d'intelletto.
Mildo de
Angelis scrive: "il silenzio è invece l’assenza tra due note, il nulla fra due
assenze, la rottura del ritmo, il corpo". Per corpo e ritmo s’intende l’atomo che compone lo spazio e che
ricerca sempre attraverso la modulazione, il modo. Il modo silenzioso, paziente, astratto.
Per
abduzione da tale questione concludiamo con una poesia di Maria Luisa Vezzali:
Se il silenzio è
il sonno
in cui noi
strettissimi
sogniamo il sogno
bianco
calmo, in attesa,
senza
tregua, del
predatore/
bocca intatta
infinita
di sprofondante
scala
a chiocciola dell’orecchio
verso luoghi
interiori
unisoni col tacet
degli dei
nel fondo della
neve,
nel fondo della
notte.
Francis
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