L’idea da cui è partito
Rossellini era quella di realizzare un affresco dell’India moderna per arginare
le idee illusorie o poco precise che l‘Italia aveva su questo affollatissimo e
variegato paese.
Il film India è
composto da una parte documentaristica, che ci mostra le strade, i visi delle
persone e le architetture, e da quattro episodi narrativi ispirati a storie
raccontate al regista dagli abitanti. Il primo episodio riguarda un conduttore
di elefanti, chiamato, mahut , che ci racconta la sua vita, il suo
lavoro, la giornata tipica degli elefanti e che, ad un certo punto, si innamora
e si sposa; il secondo blocco narra di un operaio che, dopo aver contribuito
alla costruzione di una diga, abbandona, con la famiglia, i luoghi dove aveva
vissuto per cercare un altro lavoro; il terzo ci mostra la vita contemplativa
di un anziano che salva una tigre e per ultimo un uomo e la sua scimmietta che
si ritrova da sola dopo la morte del padrone.
Rossellini parla così di India: “Il vero titolo è India,
Matri Bhumi, che vuol dire l’humus della terra. E’ un film che ho fatto
veramente sperimentalmente, potrei dire. Ho cercato di mettere su pellicola ciò
che pensavo in maniera forse teorica. E’ un’inchiesta il più possibile
approfondita, sia pure nei limiti di un film, su un paese, su un paese nuovo come l’India, che ha
ritrovato la sua libertà, che è uscito dal colonialismo. E‘ un film che amo
molto perché, come ho detto, è qui che ho cercato di fare un tentativo di
rinnovamento nel campo della conoscenza, dell‘informazione: un‘informazione che
non sia strettamente scientifica o statistica ma che sia anche una certa
documentazione dei sentimenti e del modo di comportarsi degli uomini”. Godard,
che ha amato, come tutta la Nouvelle Vague il regista italiano si è espresso così: “India, è la creazione del
mondo”, e ancora, “India è il contrario di tutto il cinema abituale:
l’immagine non è altro che il completamento dell’idea che la provoca. India
è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è
bella non perché sia bella in sé, ma perché è “lo splendore del vero“, e perché
Rossellini parte dalla verità. Lui è già partito dal punto a cui gli altri
arriveranno forse fra vent‘anni”.
Questo film è esattamente
l’espressione di un cinema-laboratorio, è un lungo viaggio esplorativo che
attraversa la sua stessa esperienza diretta per poi essere ricostruito
attraverso il montaggio. Il film si apre con una serie di riprese diverse unite
da un montaggio di accumulo e la voce del narratore che ci descrive la varietà
culturale dell’India; proprio questo accumulo e frammentazione ci regala
un’idea di complessità che ci accompagna alla narrazione corale dei quattro
personaggi, e si conclude, nuovamente, con tre inquadrature di materiale di
raccolta. Un montaggio che dà la sensazione di un tempo ciclico, un tempo
accogliente ma anche aperto. E’ interessante anche notare come nella prima
parte, per apparire il più chiaro possibile, Rossellini usi delle sottolineature
nell’esprimere un’idea, in modo realmente didattico: quindi dichiara qualcosa e
la sottolinea con un‘immagine, che la spiega, semplicemente. In questo modo, a
mio avviso, esce completamente dall’idea di un linguaggio cinematografico
poetico o artistico (nel senso di cinema d‘arte), che ha invece proprio
l’obiettivo, sembrerebbe, di accostare diverse immagini/suoni/parole per
ricreare sensazioni a livello emotivo, sensoriale e fisico, piuttosto che intellettuale.
E proprio a questo riguardo Rossellini non ha mai voluto essere identificato
come un’artista, si sentiva piuttosto un uomo di scienza e comunque molto attratto
dalla conoscenza storica del mondo.
In India la narrazione
è priva di effetti e gli attori sono decisamente credibili; sarebbe
interessante capire e vedere come il regista si sia approcciato agli attori,
anche se ciò che si può notare è che gran parte del film è visto attraverso
campi lunghi e americani e pochi primi piani. Questo ci mostra, certamente, la
sua riservatezza, la sua lontananza rispettosa, confermata poi nella sequenza
sull’accoppiamento degli elefanti, che il regista decide di non riprendere dato
che, come dice il mahut, gli elefanti sono molto timidi e non amano
mostrare il proprio accoppiamento. La scelta di non-mostrare e lasciare
alle parole il compito di far progredire la narrazione è una scelta coraggiosa
che oggi sembra essere fuori moda (o fuori tempo?). Registi come Hitchcock e
Godard, seppur diversissimi fra loro, hanno sempre mantenuto questa scelta
etica nelle loro narrazioni, non mostrare il sesso e la morte, anche se i loro
film ne sono pregni.
Tutte queste caratteristiche,
che sono sia registiche, ma soprattutto autoriali, spiegano il motivo per cui
Rossellini trovava nel mezzo televisivo un’attrazione e una speranza molto
forti. Egli intuiva certo il grande potere del mezzo, che avrebbe voluto
utilizzare come servizio pubblico di educazione.
L’approccio che ha infatti con
la presentazione del suo viaggio in India attraverso L’India vista da Rossellini
non si allontana troppo da quella che ha in India. Lui conversa: nel
film con gli abitanti e nel programma col conduttore. Il suo è un vero e
proprio racconto del viaggio che ha portato anche lui alla scoperta del paese.
Ed è sempre la sua voce narrante l’elemento più importante: le immagini non
sono portatrici assolute dei concetti che vuole passare, ma sono quasi
“d’atmosfera”. All’interno delle puntate il progredire non è infatti di tipo
verticale con momenti
drammaturgici forti, ma è uno sguardo a 360°, orizzontale, su ogni momento
della vita degli abitanti, senza dare importanze specifiche. Non è la parola di
un esperto, è la parola di un uomo comune che si è immerso nella vita vera e il
linguaggio cinematografico è, anche qui, quasi arcaico, originario, grezzo, e
la macchina è sempre in movimento, o con panoramiche o con carrellate su mezzi
di trasporto reali.
Posto che, come dice Godard,
“la televisione non è un mezzo di espressione, ma un mezzo di trasmissione” per
cui quello che resta di più nella memoria e nell’esperienza dei telespettatori
è il senso di questa trasmissione e non i dettagli e le finezze della
regia-fotografia, trovo molto acuto da parte di Rossellini utilizzarla come un
luogo dove raccontare. E allora la televisione potrebbe essere usata per
raccontare fatti storici, o viaggi e quindi non avere una pretesa “moralistica”
sulla società, quale a volte ho l’impressione di sentire. Potrebbe essere lo
specchio di chi si appassiona realmente alle cose, di chi viaggia, di chi ha
ancora voglia di raccontare delle storie in maniera completamente personale; senza
privilegiare l’aspetto “favolistico”, “emozionale“, ma con un accento
documentaristico. Dovrebbe uscire quanto più spesso dalla fiction. Dovrebbero
essere gli autori a mettersi in gioco con l’esperienza e a usare il mezzo
televisivo per sposare il dubbio. Si abbandonerebbe così la situazione da
tavolata da bar, tipica dei talk-show (che si auto dichiarano “prodotti
culturali”) dove la parola è affidata agli “opinionisti“, persone che
rispondono più a canoni moralistici (o scelte autorali?), piuttosto che a
considerazioni esperienziali. Come scrive Renato Parascandalo nell’articolo:
“L’inchiesta televisiva e il suo declino”, il problema di una televisione, ma
in generale del mondo dell’informazione è che si è privilegiata
l’ottimizzazione dei costi. L’indagine reale, sul campo, non esiste più, mentre
esiste un unico punto di vista allargato che crea una situazione di stallo e
che elimina la possibilità dell’errore, quindi la possibilità di crescita
culturale.
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