giovedì 8 marzo 2012

INDIA, l'ossesione della rappresentazione.

Nel 1958 esce il lungometraggio India, opera del regista Roberto Rossellini, nato da un lungo viaggio in India che porta anche alla realizzazione, nel 1959, di L‘India vista da Rossellini, una serie di dieci documentari per la RAI trasmessi all’interno della rubrica del programma “I viaggi del telegiornale”. Ogni puntata è basata su un tema preciso: India senza miti; Bombay la porta dell’India; architettura e costumi a Bombay; Varsova; verso il sud; le lagune del Malabar; il Kerala; Hirakoud; il Pandit Nehru; gli animali in India.
L’idea da cui è partito Rossellini era quella di realizzare un affresco dell’India moderna per arginare le idee illusorie o poco precise che l‘Italia aveva su questo affollatissimo e variegato paese.
Il film India è composto da una parte documentaristica, che ci mostra le strade, i visi delle persone e le architetture, e da quattro episodi narrativi ispirati a storie raccontate al regista dagli abitanti. Il primo episodio riguarda un conduttore di elefanti, chiamato, mahut , che ci racconta la sua vita, il suo lavoro, la giornata tipica degli elefanti e che, ad un certo punto, si innamora e si sposa; il secondo blocco narra di un operaio che, dopo aver contribuito alla costruzione di una diga, abbandona, con la famiglia, i luoghi dove aveva vissuto per cercare un altro lavoro; il terzo ci mostra la vita contemplativa di un anziano che salva una tigre e per ultimo un uomo e la sua scimmietta che si ritrova da sola dopo la morte del padrone.
 Rossellini parla così di India: “Il vero titolo è India, Matri Bhumi, che vuol dire l’humus della terra. E’ un film che ho fatto veramente sperimentalmente, potrei dire. Ho cercato di mettere su pellicola ciò che pensavo in maniera forse teorica. E’ un’inchiesta il più possibile approfondita, sia pure nei limiti di un film, su un paese,  su un paese nuovo come l’India, che ha ritrovato la sua libertà, che è uscito dal colonialismo. E‘ un film che amo molto perché, come ho detto, è qui che ho cercato di fare un tentativo di rinnovamento nel campo della conoscenza, dell‘informazione: un‘informazione che non sia strettamente scientifica o statistica ma che sia anche una certa documentazione dei sentimenti e del modo di comportarsi degli uomini”. Godard, che ha amato, come tutta la Nouvelle Vague il regista italiano si è espresso  così: “India, è la creazione del mondo”, e ancora, “India è il contrario di tutto il cinema abituale: l’immagine non è altro che il completamento dell’idea che la provoca. India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé, ma perché è “lo splendore del vero“, e perché Rossellini parte dalla verità. Lui è già partito dal punto a cui gli altri arriveranno forse fra vent‘anni”.
Questo film è esattamente l’espressione di un cinema-laboratorio, è un lungo viaggio esplorativo che attraversa la sua stessa esperienza diretta per poi essere ricostruito attraverso il montaggio. Il film si apre con una serie di riprese diverse unite da un montaggio di accumulo e la voce del narratore che ci descrive la varietà culturale dell’India; proprio questo accumulo e frammentazione ci regala un’idea di complessità che ci accompagna alla narrazione corale dei quattro personaggi, e si conclude, nuovamente, con tre inquadrature di materiale di raccolta. Un montaggio che dà la sensazione di un tempo ciclico, un tempo accogliente ma anche aperto. E’ interessante anche notare come nella prima parte, per apparire il più chiaro possibile, Rossellini usi delle sottolineature nell’esprimere un’idea, in modo realmente didattico: quindi dichiara qualcosa e la sottolinea con un‘immagine, che la spiega, semplicemente. In questo modo, a mio avviso, esce completamente dall’idea di un linguaggio cinematografico poetico o artistico (nel senso di cinema d‘arte), che ha invece proprio l’obiettivo, sembrerebbe, di accostare diverse immagini/suoni/parole per ricreare sensazioni a livello emotivo, sensoriale e fisico, piuttosto che intellettuale. E proprio a questo riguardo Rossellini non ha mai voluto essere identificato come un’artista, si sentiva piuttosto un uomo di scienza e comunque molto attratto dalla conoscenza storica del mondo.
In India la narrazione è priva di effetti e gli attori sono decisamente credibili; sarebbe interessante capire e vedere come il regista si sia approcciato agli attori, anche se ciò che si può notare è che gran parte del film è visto attraverso campi lunghi e americani e pochi primi piani. Questo ci mostra, certamente, la sua riservatezza, la sua lontananza rispettosa, confermata poi nella sequenza sull’accoppiamento degli elefanti, che il regista decide di non riprendere dato che, come dice il mahut, gli elefanti sono molto timidi e non amano mostrare il proprio accoppiamento. La scelta di non-mostrare e lasciare alle parole il compito di far progredire la narrazione è una scelta coraggiosa che oggi sembra essere fuori moda (o fuori tempo?). Registi come Hitchcock e Godard, seppur diversissimi fra loro, hanno sempre mantenuto questa scelta etica nelle loro narrazioni, non mostrare il sesso e la morte, anche se i loro film ne sono pregni.
Tutte queste caratteristiche, che sono sia registiche, ma soprattutto autoriali, spiegano il motivo per cui Rossellini trovava nel mezzo televisivo un’attrazione e una speranza molto forti. Egli intuiva certo il grande potere del mezzo, che avrebbe voluto utilizzare come servizio pubblico di educazione.
L’approccio che ha infatti con la presentazione del suo viaggio in India attraverso L’India vista da Rossellini non si allontana troppo da quella che ha in India. Lui conversa: nel film con gli abitanti e nel programma col conduttore. Il suo è un vero e proprio racconto del viaggio che ha portato anche lui alla scoperta del paese. Ed è sempre la sua voce narrante l’elemento più importante: le immagini non sono portatrici assolute dei concetti che vuole passare, ma sono quasi “d’atmosfera”. All’interno delle puntate il progredire non è infatti di tipo verticale con  momenti drammaturgici forti, ma è uno sguardo a 360°, orizzontale, su ogni momento della vita degli abitanti, senza dare importanze specifiche. Non è la parola di un esperto, è la parola di un uomo comune che si è immerso nella vita vera e il linguaggio cinematografico è, anche qui, quasi arcaico, originario, grezzo, e la macchina è sempre in movimento, o con panoramiche o con carrellate su mezzi di trasporto reali.
Posto che, come dice Godard, “la televisione non è un mezzo di espressione, ma un mezzo di trasmissione” per cui quello che resta di più nella memoria e nell’esperienza dei telespettatori è il senso di questa trasmissione e non i dettagli e le finezze della regia-fotografia, trovo molto acuto da parte di Rossellini utilizzarla come un luogo dove raccontare. E allora la televisione potrebbe essere usata per raccontare fatti storici, o viaggi e quindi non avere una pretesa “moralistica” sulla società, quale a volte ho l’impressione di sentire. Potrebbe essere lo specchio di chi si appassiona realmente alle cose, di chi viaggia, di chi ha ancora voglia di raccontare delle storie in maniera completamente personale; senza privilegiare l’aspetto “favolistico”, “emozionale“, ma con un accento documentaristico. Dovrebbe uscire quanto più spesso dalla fiction. Dovrebbero essere gli autori a mettersi in gioco con l’esperienza e a usare il mezzo televisivo per sposare il dubbio. Si abbandonerebbe così la situazione da tavolata da bar, tipica dei talk-show (che si auto dichiarano “prodotti culturali”) dove la parola è affidata agli “opinionisti“, persone che rispondono più a canoni moralistici (o scelte autorali?), piuttosto che a considerazioni esperienziali. Come scrive Renato Parascandalo nell’articolo: “L’inchiesta televisiva e il suo declino”, il problema di una televisione, ma in generale del mondo dell’informazione è che si è privilegiata l’ottimizzazione dei costi. L’indagine reale, sul campo, non esiste più, mentre esiste un unico punto di vista allargato che crea una situazione di stallo e che elimina la possibilità dell’errore, quindi la possibilità di crescita culturale.

Francesca Braschi 



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